UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO
DOTTORATO DI RICERCA IN FILOLOGIA
E CULTURA GRECO-LATINA
XVII CICLO
Longa via
.
Rappresentazioni delle simbologie spaziali
nell’elegia augustea
Tesi di dottorato di
Paolo Monella
Coordinatore del dottorato
Ch.ma prof.ssa
Maria Assunta Lavagnini
Tutor
Ch.mo prof.
Luciano Landolfi
Anno Accademico 2004-2005
Things should be made as simple as possible – but no simpler.
Albert Einstein
1.1 I precedenti ellenistici: scoperta della città e invenzione della campagna
1.1.1 Dalla povli" alla metropoli, attraverso Alessandria. Un rapido consuntivo
1.1.2 La Grecia classica: l’occhio del cittadino sulla campagna ‘vicina’
1.1.3 L’Ellenismo e l’‘invenzione della campagna’
1.1.4. La città ellenistica
1.2 I precedenti romani: i manifesti del ‘catonismo’
Capitolo 2. Catullo: la società delle lettere e le sue periferie
2.1 Introduzione
2.2 La città come sfondo della creazione letteraria
2.3 Periferie vicine e lontane
2.4 Poli decentrati
2.5 Spazi esotici
2.6 Conclusioni
Capitolo 3. Tibullo: il sogno rurale visto da lontano
3.1 Introduzione: unità e molteplicità nella poesia tibulliana
3.2 Il triplice spazio di Tibullo
3.2.1 La natura irreale del sogno georgico-bucolico
3.2.2 Il posizionamento dell’io poetico in rapporto alla campagna idealizzata
3.2.3 Lo spazio della città
3.2.4 Lo spazio della guerra
3.2.5 Altre forme di rappresentazione degli spazi ‘esterni’
3.2.6 Verg. Buc. 10
Capitolo 4. Properzio: Roma, l’amore, il viaggio
4.1 Introduzione
4.2 La città
4.2.1 I termini della questione
4.2.2 I Realien urbani come sfondo neutro o empatico alla vicenda amorosa
4.2.3 I luoghi della città come spazio ‘esterno’ all’ethos elegiaco
4.3 Il viaggio
4.3.1 Il viaggio in Properzio: evasione o rifiuto?
4.3.2 Viaggio e tradimento
4.3.3 Il viaggio come punizione e come prova
4.3.4 Viaggio e Lebenswahl
4.3.5 Il viaggio come remedium amoris
Capitolo 5. Ovidio: una nuova retorica dello spazio
5.1. Alcune premesse
5.2 L’appropriazione della topografia urbana
5.3 Viaggio e movimento nell’elegia erotica ovidiana
5.3.1 Gli Amores: verso una retorica ‘aperta’ dello spazio
5.3.2 L’Ars amatoria: una grammatica dell’eros ‘dinamico’
5.3.3 Postilla: i Remedia amoris, ovvero l’ultimo rovesciamento
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Edizioni e commenti
Studi
Il presente studio si prefigge di studiare la concezione dello spazio all’interno dell’elegia augustea, partendo dai testi e dalle dinamiche culturali che, in àmbito sia greco sia latino, possano essere considerati quali precedenti significativi per il suo stesso sviluppo.
In un capitolo preliminare cercheremo di seguire all’interno della cultura ellenica l’evoluzione delle rappresentazioni culturali della città, soprattutto nel passaggio cruciale dalla πόλις classica alla nuova realtà della metropoli ellenistica, paradigmaticamente rappresentata da Alessandria, al fine di rintracciare nelle opere della letteratura ellenistica le matrici del concetto di urbanitas che tanto peso rivestirà nella letteratura tardo-repubblicana ed augustea, e specificamente nella poesia elegiaca. Particolare attenzione sarà dedicata ai processi culturali per cui, nello scollamento tra l’identità urbana e quella legata alla χώρα , si sviluppano da una parte una tendenza realistica nel rappresentare la realtà cittadina, dall’altra un’immagine idealizzata della campagna di cui si alimenterà nei secoli a venire la poesia bucolica.
Accanto a tali considerazioni, per scandagliare in modo più completo la complessità di influssi culturali destinata a confluire nella rappresentazione elegiaca dello spazio, è parso altresì opportuno proporre alcune considerazioni sull’ideologia romana della terra, elemento basilare della visuale del mos maiorum . Un certo numero di testi significativi di età repubblicana ed augustea, per lo più provenienti da trattati di agricoltura, permetteranno di enucleare le costanti di una ben precisa strategia identitaria, tendente ad individuare nel rus , in contrapposizione all’ urbs , lo spazio simbolico in cui risiedono i più fondati valori morali, economici e politici della romanità.
All’interno della nostra analisi un capitolo a sé è stato riservato al liber catulliano, sia in quanto tappa basilare nell’elaborazione di una cultura letteraria dell’ urbanitas a Roma, sia in quanto precedente diretto dell’identificazione tra vita, amore, poesia e contesto cittadino (tanto dal punto di vista culturale quanto dal punto di vista spaziale), a sua volta cardine della costruzione elegiaca dello spazio. La produzione catulliana dimostra di costituire, anche per questo aspetto, una fucina di temi e forme espressive di straordinaria ricchezza, a cui, anche per quanto riguarda temi quali il viaggio, la lontananza, i siti della guerra, la poesia elegiaca non mancherà di attingere, pur attraverso una più rigorosa selezione di forme e motivi.
Le pagine dedicate alla costruzione simbolica dello spazio in Tibullo si misureranno con una questione diffusamente dibattuta dalla letteratura specialistica: la natura delle rêveries bucolico-georgiche tibulliane. Trasportando l’analisi sul piano del posizionamento spaziale dell’ io poetico nell’ intera produzione del nostro autore, non escluse le elegie cui è più legato il cliché del Tibullo ‘poeta della campagna’, tenteremo di proporre una lettura del suo universo spaziale nella chiave di una ‘fuga verso l’interno’, a partire da un ‘piano di realtà’ legato invece agli spazi della città e della guerra. Come non tarderemo a vedere, un precedente di tale costruzione simbolica dello spazio può forse rintracciarsi nella perduta silloge di Cornelio Gallo. Sarà pertanto necessario rileggere un componimento di particolare rilievo ai fini della ricostruzione della poetica galliana, e, in generale, dei nodi problematici del genere elegiaco: la decima ecloga di Virgilio.
Passando all’indagine della poesia properziana, occorrerà dapprima trattare in maniera separata i due assi intorno ai quali si costruisce la retorica dello spazio dell’autore umbro, e, in ultima analisi, dell’intero genere d’appartenenza: la città e il viaggio. Per quanto riguarda il primo tema, cercheremo di analizzare la cifra di una poesia fortemente radicata nel mondo urbano, ma che tuttavia sembra temere le forze ‘centrifughe’ insite nella realtà della vita galante, il cui teatro preferenziale, se non elusivo, coincide con la topografia dell’ Urbs . Il tema della lontananza, invece, si delineerà nei termini di una vera e propria ossessione properziana, segno di un rifiuto radicale di ogni forma di spazio esterno in cui si rispecchia la natura ‘esclusiva’ dell’ideologia elegiaca. In questa luce, ovvero attraverso il rifiuto di quanto si pone all’esterno del mondo chiuso degli amanti, potremo esaminare l’intera costruzione simbolica dello spazio in Properzio, sia in relazione ai Realien urbani, visti come luogo di pericolosa evasione dalla monogamia elegiaca, sia nei confronti di ogni forma di viaggio, fosse anche la più inoffensiva delle gite fuori porta.
Concluderemo la nostra analisi, come ovvio, con la produzione giovanile di Ovidio, all’interno della quale, muovendo dai noti studi sulla piena realizzazione del concetto di urbanitas e dall’appropriazione ormai non più problematica dello spazio urbano, evidenzieremo come il venir meno delle contraddizioni e delle antinomie di cui si animava la ‘retorica esclusiva’ dell’elegia latina provochi un sostanziale smantellamento delle simbologie spaziali fondate sull’opposizione polare ‘interno vs. esterno’ e su una ideologia della staticità basata sulla desidia . Al suo posto vedremo costruirsi, già negli Amores , una nuova etica ‘dinamica’ per l’amante elegiaco, che troverà la sua compiuta espressione nell’ Ars amatoria . Che quest’ultima forma di semantizzazione delle categorie spaziali venga poi nuovamente mutata di segno nei Remedia amoris non desterà meraviglia – il sistematico rovesciamento dell’ Ars costituisce, come ben si sa, la matrice genetica del poema. Ad ogni modo, il recupero tardivo delle categorie spaziali elegiache nei Remedia non costituirà che l’ultimo omaggio ad una retorica dello spazio irrimediabilmente legata ad un genere e ad una ideologia che hanno perso, con la loro problematicità, la loro ragione di essere.
Non presumiamo di dire qualcosa di nuovo asserendo che lo stretto collegamento tra vita, amore e creazione artistica che caratterizza la poesia elegiaca latina trova il suo punto di riferimento privilegiato nella vita e la cultura della metropoli e delle sue élites intellettuali. Tuttavia è nostra opinione – da sottoporre a verifica nel corso del presente studio - che le coordinate spaziali tracciate dal genere elegiaco al proprio interno e caricate di valenze simboliche si costruiscano fondamentalmente in rapporto a tale punto di riferimento. Riteniamo perciò indispensabile muovere gettando uno sguardo su quella stagione letteraria che ha realizzato appieno la ‘scoperta della città’, in un senso che preciseremo tra breve. Pensiamo, naturalmente, all’Ellenismo.
La metropoli ellenistica, invece, rappresenta come il centro di un’enorme χώρα , con cui non ha più uno scambio simbiotico: essa è sovraordinata a tutte le altre città del regno, è popolata in modo non più proporzionato alle possibilità di un Hinterland in cui impiegare la propria forza-lavoro contadina, e da cui trarre approvvigionamento. Costituisce, viceversa, un polo di attrazione per un vero e proprio flusso di inurbamento, in quanto essa accentra in sé le dinamiche politiche, economiche e commerciali dell’intero regno.
La ‘separatezza’ della metropoli dalle realtà periferiche è marcata ulteriormente da una realtà culturale straordinaria, non ultimo tra i portati della prodigiosa impresa politico-militare di Alessandro: quelle città che siamo abituati a considerare come le tedofore della grecità – e non a torto, almeno dal punto di vista della cultura letteraria, filosofica, artistica –, città come Alessandria, Pergamo, Antiochia, erano, almeno nelle prime fasi del loro sviluppo, delle ‘ enclaves ’ di cultura greca all’interno di territori etnicamente e linguisticamente non ellenici.
I molteplici riflessi sul piano letterario di questa mutata organizzazione dello spazio urbano e rurale in età ellenistica rivestono un’importanza particolare all’interno dello studio che intendiamo compiere all’interno dell’elegia latina, in quanto proprio nella nuova centralità della città in età alessandrina, nel diverso organizzarsi intorno ad essa, ed in relazione ad essa, di ogni altro paesaggio letterario, scorgiamo una tappa ineludibile per la comprensione molti aspetti delle rappresentazioni spaziali interne al genere elegiaco latino.
Esiodo rappresenta in questa prospettiva uno snodo importante, poiché già nelle sue opere si dividono, per così dire, le strade della campagna ‘agricola’ da quella ‘pastorale’: l’una è destinata a colorarsi, a partire dalle Opere e i Giorni , di connotazioni più realistiche, legate alla durezza della vita nei campi, e insieme di significati morali, in relazione al valore ‘etico’ del lavoro; l’altra, la campagna dei pastori, viene caricata, nel celeberrimo proemio della Teogonia , di valenze metaletterarie come spazio sacrale della poesia. E, dato che il nostro discorso convergerà a breve verso la letteratura ellenistica e verso Teocrito in particolare, è inutile ricordare l’importanza del precedente esiodeo a tal riguardo.
Evidentemente il mondo agreste era sentito come legato alle sfere ‘basse’ della realtà, se la sua presenza diventa fondamentale man mano che si ‘scende’ dalla tragedia verso i generi drammatici meno elevati (all’interno di quella classificazione estetica antica che per noi si identifica indelebilmente con l’enunciazione aristotelica nella Poetica ): quei generi, come il dramma satiresco o la commedia, in cui alla trasfigurazione ‘eroica’ di epos e tragedia si sostituiva un approccio più realistico, o piuttosto una trasfigurazione di senso opposto, verso il parodico, il deforme, il grottesco.
Costituirebbe dunque una forzatura, il cercare un discrimine, una ‘sostanziale’ differenza tra lo sguardo che hanno gettato sulla campagna gli scrittori della πόλις e quelli dei regni post-alessandrini? Certo, un approccio così problematico alla questione potrà forse preservare la nostra analisi da conclusioni semplicisticamente manichee, e d’altra parte un discorso rigidamente dualistico si troverebbe in grave impaccio nel comprendere Menandro, che rappresenta un momento intermedio in un’evoluzione che dalla Grecia classica porta al mondo ellenistico.
Tanto basti per chiarire cosa intendiamo per ‘invenzione della campagna’. Che dire, invece, della ‘scoperta’ della città? Se guardiamo a testi come i mimi urbani di Teocrito, e più ancora ai mimiambi di Eronda, l’impressione che sortisce è quella di una tendenza divergente: alla maggiore astrazione nella rappresentazione della campagna cui si è fatto cenno corrisponde qui un maggiore realismo nei confronti della realtà urbana.
Possiamo ora tornare al punto da cui eravamo partiti, e chiarire meglio in cosa consista, almeno dal punto di vista del ruolo dello spazio all’interno della creazione artistica, l’eredità principale della poesia ellenistica per un genere letterario come l’elegia latina.
Non potremo prescindere da tali considerazioni quando affronteremo lo studio delle simbologie spaziali elaborate nel corpus elegiaco latino. Ma prima dovremo spostarci a Roma, in quanto il presente quadro preliminare necessita di essere completato prendendo in considerazione i precedenti romani, letterari e più generalmente culturali, che hanno costituito l’imprescindibile contesto in cui si innerverà l’esperienza dei νεώτεροι prima, e dei poeti elegiaci poi.
Nelle pagine precedenti si è preso in considerazione un aspetto specifico delle rappresentazioni letterarie dello spazio nei testi greci: il rapporto tra spazio urbano e rurale, dai primi affioramenti di tale tematica nei testi basilari della cultura ellenica fino ai riflessi dell’urbanesimo ellenistico. Non perché questo punto di vista rivesta una centralità assoluta rispetto ad altri, quali ad esempio l’analisi delle aperture agli spazi completamente ‘esterni’ all’orizzonte culturale ellenico, i ‘confini del mondo’ o anche semplicemente le terre dei barbari o dell’affascinante Oriente, ma perché abbiamo inteso privilegiare piuttosto una linea di indagine precisa, che dalla πόλις arcaica e classica e dal suo rapporto simbiotico con la propria χώρα porta allo spazio ‘separato’ della metropoli ellenistica – nell’intento, dichiarato sin dall’inizio, di giungere, attraverso Alessandria, a Roma. La convinzione di fondo rimane invariata: per i fini di una ricerca orientata all’analisi dell’elegia latina appare prioritario investigare i precedenti e il contesto culturale da cui nasce la centralità dell’ Urbs , centralità che caratterizza, come vedremo, quel mondo letterario da numerosi punti di vista e in modi a volte complessi e contraddittori.
Mentre si andava formando una letteratura in lingua latina, in costante riferimento ai modelli greci, ovvero ai grandi classici dei secoli precedenti, tuttavia soprattutto, com’è ovvio, alle correnti letterarie contemporanee (cioè ellenistiche), la Grecia produceva già da tempo una letteratura ‘alta’ pienamente ‘urbana’, nel senso precisato nel capitolo precedente. La domanda centrale di queste pagine sarà: quale terreno culturale trovavano a Roma i semi di questa letteratura, ma, più in generale, di questa cultura della città, della raffinatezza, del rifiuto di ogni aspetto ‘rustico’?
Tutto il proemio del trattato, nella sua secca brevità, delinea di fatto i contorni di un’ideologia ben precisa. Nell’affermata primazia dell’agricoltura sul commercio e su altre attività ‘finanziarie’, come il prestito ad usura, si individuano, legati in modo inscindibile, aspetti che noi diremmo puramente economici (maggiore sicurezza dei profitti) e aspetti ‘morali’:
Est interdum praestare mercaturis rem quaerere, nisi tam periculosum sit, et item foenerari, si tam honestum sit. maiores nostri sic habuerunt et ita in legibus posiverunt: furem dupli condemnari, foeneratorem quadrupli. quanto peiorem civem existimarint foeneratorem quam furem, hinc licet existimare. et virum bonum quom laudabant, ita laudabant: bonum agricolam bonumque colonum; amplissime laudari existimabatur qui ita laudabatur. mercatorem autem strenuum studiosumque rei quaerendae existimo, verum, ut supra dixi, periculosum et calamitosum. at ex agricolis et viri fortissimi et milites strenuissimi gignuntur, maximeque pius quaestus stabilissimusque consequitur minimeque invidiosus, minimeque male cogitantes sunt qui in eo studio occupati sunt. nunc, ut ad rem redeam, quod promisi institutum principium hoc erit.
Insomma, il ‘prologo’ del De agri cultura rappresenta una sorta di ‘manifesto’ – naturalmente non nel senso moderno – di un’ideologia che conglomera intorno all’agricoltura e, come vedremo meglio più avanti, al suo spazio, valori economici, ideologico-morali, politici, nel quadro della costruzione dell’identità culturale romana. In questo nodo concettuale, nell’inscindibilità di questi aspetti, consiste l’essenza di quello che, se ci si passa il termine, vorremmo chiamare ‘catonismo’.
Viri magni nostri maiores non sine causa praeponebant rusticos Romanos urbanis. ut ruri enim qui in villa vivunt ignaviores, quam qui in agro versantur in aliquo opere faciendo, sic qui in oppido sederent, quam qui rura colerent, desidiosiores putabant. itaque annum ita diviserunt, ut nonis modo diebus urbanas res usurparent, reliquis septem ut rura colerent. quod dum servaverunt institutum, utrumque sunt consecuti, ut et cultura agros fecundissimos haberent et ipsi valetudine firmiores essent, ac ne Graecorum urbana desiderarent gymnasia. quae nunc vix satis singula sunt, nec putant se habere villam, si non multis vocabulis retineant graecis, quom vocent particulatim loca, procoetona, palaestram, <a>podyterion, peristylon, ornithona, peripteron, oporothecen. igitur quod nunc intra murum fere patres familiae correpserunt relictis falce et aratro et manus movere maluerunt in theatro ac circo, quam in segetibus ac vinetis, [ac] frumentum locamus qui nobis adve<h>at, qui saturi fiamus ex Africa et Sardinia, et navibus vindemiam condimus ex insula Coa et Chia.
Eppure non è difficile accorgersi come anche nel primo dei due autori le due forme di guadagno contrapposte a quella degli agricole rimandassero in sé ad un contesto urbano, soprattutto ove si consideri che il commercio cui faceva cenno, in quanto pediculosi et calamitoso , ben difficilmente sarà stato quello della bancarella dello smercio al minuto in una qualunque fiera. Evidentemente Catone si riferiva ai rischi del grosso commercio trasmarino, esposto a naufragi e pirateria, e legato alla presenza di un certo tipo di capitali e di infrastrutture (se così possiamo chiamare i porti dell’antichità per-industriale), che non si potevano trovare che in città. Ecco dunque che marrone, eliminando dalla vita urbana ogni attività produttiva (ancora presente, seppure seccamente ‘bocciata’, in Catone) appare proseguire proprio sulla strada dell’illustre predecessore nel porre la questione della dicotomia tra città e campagna in termini etici. Catone citava le attività ‘urbane’, rifiutandole su basi economiche e morali: Varrone le nega addirittura, sostituendole – sulla base della stessa impostazione moralistica – con il godimento di beni e servizi (Varr. praef. 1: urbanas res usurparent ) e con gli applausi scroscianti nel circo.
Ma soprattutto, sono presenti i due tratti fondamentali del catonismo: l’interconnessione tra valutazioni morali ed economiche, e il discorso identitario.
Tuttavia, ancora maggior attenzione merita il secondo punto: qui, molto più esplicitamente che in Catone, la costruzione dell’identità romana passa attraverso un’adesione ai valori del ru s in quanto contrapposti alla cultura greca. Direttamente, in Varr. praef. 1, sono citati i Romani , i quali, finché non si erano allontanati dall’ institutum antico che assegnava la priorità alla campagna anche in termini di scansione del tempo, ne Graecorum urbana desiderarent gymnasia . La desidia che corrompe i costumi e l’economia contemporanea, l’origine di tutti i mali di una nazione un tempo virtuosamente contadina, prende adesso forma concreta nel testo varroniano, incarnandosi nel nefasto binomio (creato tramite l’iperbato di urbana ) cultura greca/cultura cittadina. Non è certo un caso se l’ellenismo corruttore è icasticamente rappresentato in un grecismo, gymnasia . Nelle mani dell’autore del De lingua latina e delle Saturae Menippeae , la polemica contro l’‘urbanizzazione’ delle stesse villae rustiche, dotate ora di ogni forma di comfort alla moda (moda ellenica), diventa satira a sfondo linguistico contro la stessa esterofilia lessicale.
È lecito chiedersi, ovviamente, quale sostanza avesse, al di fuori degli scritti di Catone e di quelli di Varrone (ma anche all’interno di essi), quel ‘catonismo’ che ci può apparire come una forma mentis così coerente e compatta. La risposta è stata già data da tempo, anche in relazione alla formazione culturale di Catone. Ma rimanderemo queste domande ancora di poco: giusto il tempo di completare il percorso di lettura all’interno del De re rustica varroniano.
Tali contraddizioni non turberanno più di tanto, se consideriamo come la stessa formazione, all’interno della cultura romana tra II e I sec. a.C., di un’identità culturale attorno alle proprie radici rurali costituisca essa stessa sin dal principio una risposta, una reazione ad una massiccia penetrazione della cultura greca a Roma. Questa stessa pretesa identitaria altro non è che una costruzione culturale: non può esistere, nelle classi alte della Roma ellenizzata, una condotta puramente ‘catoniana’. Soprattutto, quanto qui più ci interessa, non può esistere neppure un testo davvero immune dal ‘morbo’ ellenico.
Nella seconda metà del I sec. a.C., queste contraddizioni deflagrano a vari livelli: la pesonalizzazione ormai pienamente ‘ellenistica’ della politica e della gestione del potere, la nuova dimensione, davvero metropolitana, di Roma, legata ai nuovi orizzonti geopolitici dell’impero, l’assimilazione ormai diffusa e profonda all’interno di gruppi sociali sempre più ampi di stili di vita, filosofia, arte, letteratura greche creano le condizioni per la crisi della Repubblica e la ‘rivoluzione romana’. Sul versante letterario, saranno i νεώτεροι a trarne per primi le conseguenze estreme, operando la loro ‘rivoluzione del gusto’.
Con una decisa manovra di avvicinamento all’oggetto centrale del presente studio – l’elegia erotica soggettiva latina e le sue forme di simbolizzazione letteraria dello spazio – ci occuperemo dunque nel prossimo capitolo di quel liber catulliano che ne costituisce un così importante precedente letterario.
Per ricollegarci alle considerazioni formulate nei capitoli precedenti, intanto prenderemo le mosse dal problema del ruolo rivestito dalla città di Roma nella poesia catulliana.
Le molteplici ‘ondate’ di ellenizzazione cui Roma andò incontro fra il III e il II sec. a.C. fanno fede della complessità del processo di trasformazione e di avvicinamento alla cultura d’oltremare ineludibile per una città che ambisse, oltre alla talassocrazia, all’egemonia culturale sulle altre metropoli affacciate sul Mediterraneo. Ma la ‘rivoluzione letteraria’ condotta dal circolo di poeti che Cicerone sdegnosamente ebbe a bollare con il notorio epiteto di poetae novi si impone in modo particolare per i suoi caratteri di rottura con larga parte della mentalità quiritaria tradizionale . La ‘poesia di circolo’ neoterica si concepisce e si presenta come l’erede diretta di quella concezione élitaria della letteratura di origine alessandrina di cui abbiamo trattato nel primo capitolo di questo studio.
Quare, quod scribis Veronae turpe Catullo
esse, quod hic quisquis de meliore nota
frigida deserto tepefactet membra cubili,
id, Manli, non est turpe, magis miserumst.
ignosces igitur, si, quae mihi luctus ademit,
haec tibi non tribuo munera, cum nequeo.
nam, quod scriptorum non magna est copia apud me,
hoc fit, quod Romae vivimus: illa domus,
illa mihi sedes, illic mea carpitur aetas;
huc una ex multis capsula me sequitur.
quod cum ita sit, nolim statuas nos mente maligna
id facere aut animo non satis ingenuo,
quod tibi non hucusque petenti copia praesto est:
ultro ego deferrem, copia siqua foret.
Posto che ogni centro generi una periferia, è scontato che all’idea e alla rappresentazione letteraria dell’ urbanitas all’interno del liber catulliano debba corrispondere una complementare presenza del suo rovescio, ovvero di quel mondo ‘esterno’ ed estraneo alla vita intellettuale ed alle finezze culturali di cui abbiamo parlato: lo spazio del rusticum .
Eppure, in questo giudizio letterario, si può notare un’assenza: la condanna non passa attraverso il lessico della rusticitas , che pure abbiamo visto all’opera altrove, e neanche attraverso quello, complementare, dell’ urbanitas . Ed è qui che si alterano le troppo facili schematizzazioni sull’uso metaletterario delle categorie spaziali di città (= eleganza ‘neoterica’) e rus / provincia (= fallimento artistico).
L’errore di Sestio non consiste nell’essere rusticus , troppo poco elegante, ma forse di esserlo troppo – e male. Approdando ad uno stile tanto freddo da far venire l’influenza Catullo. A questo punto, come suggerivamo sopra, può nascere il dubbio che la scelta del luogo di cura di Catullo non sia casuale.
Fuori da ogni schematismo, penso si possa concludere che l’asse spaziale città-campagna viene caricato nel liber catulliano di simbologie letterarie e poetologiche, in modi a volta più semplici – come nel caso dell’identificazione tra cultura cittadina e poesia nuova –, a volte, come nel caso del carme 44, più complessi, dove accortamente la coppia di key-words ‘ urbanus / rusticus ’ non viene impiegata, nonostante l’intero discorso letterario sia giocato su una simbologia spaziale. Accortamente, al posto di quella polarizzazione compare una villa suburbana , in cui Catullo si rifugia dissociandosi dall’ ‘affettato’ cittadino Sestio.
La rappresentazione del non-urbano in Catullo, però, non conosce solo modalità parodiche. Lo stesso legame del poeta, mai del tutto sconfessato, con la provincia da cui viene, rende più varia la gamma dei trattamenti di questo tema.
I luoghi di preda di Mamurra, visti da lontano, appaiono dunque scintillanti di ricchezze; non così la Bitinia, che pure la donna di Varo in Cat. 10, 8 immaginava fonte di arricchimento sicuro per Catullo: vista da vicino, aveva rivelato una realtà ben più squallida. Esiste però anche un altro punto di vista attraverso cui guardare da Roma ai luoghi lontani della guerra: quello di chi resta.
Unam Septimius misellus Acmen
mavult quam Syrias Britanniasque.
Il tema del rifiuto del viaggio si riaffaccia peraltro nei tre componimenti ‘del ritorno’: Cat. 46 (la partenza); 31 (il ritorno a Sirmione); 4 (la navicella).
Le risonanze ‘esotiche’ dei luoghi distanti, soprattutto di quelle con un più altisonante nome greco, sono alla base di un altro carme metaletterario costruito su una simbologia spaziale, Cat. 95:
Smyrna mei Cinnae, nonam post denique messem
quam coeptast nonamque edita post hiemem,
milia cum interea quingenta Hatriensis in uno
<versiculorum anno putidus evomuit,>
Smyrna sacras Satrachi penitus mittetur ad undas,
Smyrnam cana diu saecula pervolvent:
at Volusi annales Paduam morientur ad ipsam
et laxas scombris saepe dabunt tunicas.
parva mei mihi sint cordi monumenta Philitae:
at populus tumido gaudeat Antimacho.
A sua volta, la rivalità con il celtibero Egnazio permette a Catullo di estendere le frontiere dell’inurbano fino alla Spagna, dove però essa assume comunque forme ‘estreme’, e diventa barbarie intollerabile. Eppure, sono altre, normalmente, le forme di rappresentazione di spazi così lontani come la Spagna, la Britannia, le lontane terre d’Oriente, o la stessa Troade, che riveste un ruolo particolare nel liber . Queste oscillano tra la categoria del meraviglioso da una parte – che caratterizza le terre ‘viste da lontano’ come fonte di ricchezza, di prodotti pregiati o di curiosità etnografiche, conoscendo anch’essa, nell’elegia sulla Smyrna , un suo riuso metaletterario –; e, dall’altra, l’aspetto detestabile che è soprattutto peculiare agli spazi delle campagne militari, almeno per chi queste campagne le ha fatte, come Catullo, o ha motivo di temerle come Acme, che rischia di perdere il suo Settimio. Da qui parte una linea che porterà al rifiuto totale del viaggio da parte degli elegiaci: nel momento in cui la dimensione amorosa diventerà la dimensione assoluta del connubio vita-poesia, un ruolo ben più complesso giocheranno i viaggi come quello catulliano in Bitinia alla ricerca di ricchezze – basti pensare, in prima istanza, a quell’elegia 1, 3 di Tibullo che di fatto mostra la punizione del poeta per avero osato infrangere quello che è già un anatema elegiaco. Ma questo costituisce già l’argomento del prossimo capitolo.
Perché questa, giusto un passo al di là della liscia superficie dello stile, risulta complessa, dotata di peculiare equilibrio fra unità e molteplicità: da una parte, essa appare ‘modulare’ in svariati sensi; dall’altra, è provvista di una sua unitarietà, in quanto una serie di motivi ricorrenti, riadattati a contesti diversi, ritorna in tutto l’arco dei due libri sicuramente tibulliani, formando come i fili essenziali di una trama.
Il punto è che, mentre i diversi pannelli dei singoli componimenti sono comunque sapientemente armonizzati tra di loro, come dimostra la fioritura di studi sulla struttura delle elegie tibulliane, i cicli poetici ci restituiscono – se così si può dire – mondi poetici, e comunque immagini dell’ ‘io’ poetico a volte inconciliabili tra di loro.
Un notevole grado di coesione interna, però, è garantito dalla ricomparsa di determinati motivi nei diversi cicli, tra cui ad esempio il sogno bucolico-campestre, non esclusivo, come vedremo, delle elegie per Delia; il tema dell’età dell’oro – collegato al precedente –; o il tema della guerra, intrecciati tutti tra di loro e variati a seconda dei contesti di appartenza.
Da queste considerazioni preliminari intendiamo partire per cercare di restituire un’immagine più articolata di quanto spesso non si faccia delle simbologie spaziali sottese ad un corpus di testi che ospita, in uno spazio a più dimensioni, diverse personae poetiche.
In tale direzione, occorrerà preliminarmente ribadire la natura ‘irreale’ della campagna di Tibullo. Non alludiamo, sarà bene chiarirlo subito, solo al fatto ovvio che gli ‘spazi’ di cui ci occupiamo rappresentano uno dei molteplici aspetti di una vera e propria finzione letteraria, bensì a qualcosa di più preciso: come è già stato notato, e cercheremo di riaffermare con ulteriori precisazioni, all’interno dello stesso mondo poetico di Tibullo lo spazio della campagna viene sempre presentato come uno spazio sognato, un luogo irreale nella prospettiva dello stesso io poetico che abita (e crea letterariamente) quel mondo.
Questo assunto della critica, che non andrebbe mai trascurato nell’approccio alla produzione di Tibullo, insieme alle considerazioni esposte in partenza sulla ‘pluralità’ della sua poesia, costituirà l’avvio alla presente analisi. Essa si svilupperà principalmente in due direzioni. In primo luogo, ci proponiamo di considerare ( nei paragrafi 3.2.2 e 3.2. 3) il carattere, per così dire, circoscritto di quella particolare idea poetica costituita dal ritorno alla campagna. Circoscritto, dico, non solo nel contesto del resto della produzione tibulliana (ovvero degli gli altri due cicli, di Marato e di Nemesi), che creano già intorno ad essa una cornice ‘straniante’, implicitamente urbana, bensì anche nel contesto delle singole elegie. Quindi ( nel paragrafo 3.2. 4) torneremo ad esaminare le rêveries campestri, per suggerire che la ‘distanza’ da cui esse vengono osservate non si misura solo sull’asse che separa Roma dalla famosa regio Pedana di memoria oraziana , ma che esse rappresentano la via percorsa da Tibullo per esorcizzare un tabù elegiaco per eccellenza: la longa via , i viaggi lontano da Roma e dall’amata – questi sì presentati dall’ io poetico come appartenenti alla sua (comunque fittizia) dolorosa esperienza . Dopo aver analizzato le ‘altre’ rappresentazioni dello spazio del viaggio e della guerra, rese possibili dalla già ricordata ‘molteplicità’ distintiva della poesia tibulliana ( paragrafo 3.2. 5), chiuderemo la nostra rassegna esaminando il ruolo che, nella formazione dell’universo simbolico spaziale tibulliano, può aver giocato la decima ecloga di Virgilio (vd. infra , 3.2.6), testo basilare nella formazione dell’universo letterario elegiaco
Hoc mihi contingat. sit dives iure, furorem
qui maris et tristes ferre potest pluvias.
o quantum est auri pereat potiusque smaragdi,
quam fleat ob nostras ulla puella vias.
te bellare decet terra, Messalla, marique,
ut domus hostiles praeferat exuvias;
me retinent vinctum formosae vincla puellae,
et sedeo duras ianitor ante fores.
Peraltro, subito dopo questi versi, la vita comune degli amanti ritorna a colorarsi delle tonalità dell’immaginazione (vv. 57-58: tecum / dum modo sim ), che caratterizzano anche, com’è ovvio, la fantasia del funerale (vv. 59-68), la cui rappresentazione passa attraverso gli ottativi in anastrofe te spectem e te teneam (vv. 59 e 60), per giungere agli indicativi futuri dei versi seguenti, mentre l’invito all’amore espresso ai vv. 69-74 si snoda attraverso modalità esortative e gnomiche (v. 69: iungamus ; v. 73: est tractanda ).
Se proviamo ad allargare lo sguardo abbracciando la sequenza dei primi due componimenti tibulliani – entrambi appartenenti, si badi bene, al ‘ciclo di Delia’ –, ad apparire ‘isolato’ non è più l’ exclusus amator della seconda parte di 1, 1, quanto piuttosto l’improbabile contadino della prima parte della medesima elegia.
Ipse boves mea si tecum modo Delia possim
iungere et in solito pascere monte pecus,
et te, dum liceat, teneris retinere lacertis,
mollis et inculta sit mihi somnus humo.
Su Tib. 1, 3 ci riserviamo di indugiare nel paragrafo 3.2. 4, il cui oggetto sarà appunto il tema del viaggio ed i sogni ‘compensativi’ che esso genera. Ma anche adesso, di scorcio non si potrà fare a meno di notare come l’idea poetica del vagheggiamento dell’età bucolica di Saturno (vv. 35-48) costituisca come una parentesi priva di alcuna diretta connessione con l’ io poetico , mentre tanto la partenza del poeta ai vv. 9-22, quanto – presumibilmente – il suo sognato ritorno nel finale avvengono da e verso la città di Roma (v. 9: me cum mitteret urbe ).
Nelle prime tre elegie della raccolta, che costituiscono poi il primo ‘blocco’ di elegie destinate a Delia, il tema rupestre sembra dunque privilegiato solo (anche se non è poco) dalla collocazione incipitaria e dal tono gnomico della prima sezione di Tib. 1, 1. D’altra parte sembra che, laddove siano assenti quelli che abbiamo chiamato ‘marcatori di irrealtà’, come i congiuntivi ottativi e i futuri prevalenti in 1, 1, 1-52, la persona che Tibullo indossa, salvo precisa indicazione contraria, sia quella dell’amante cittadino elegante ed esperto, le cui notti all’addiaccio e le cui furbizie adulterine ritroveremo spesso nei libri di Properzio e di Ovidio; ma anche in quelli restanti di Tibullo.
In 1, 10 il tema bucolico-georgico torna a pervadere di sé l’intero testo, in chiara rispondenza architettonica con l’elegia d’apertura del libro. Ancora una volta, dunque, ragioni strutturali contribuiscono ad attribuire al motivo prescelto uno spessore particolare, eppure anche in questo componimento sono chiari i segni che collocano il mondo della campagna in una dimensione ‘altra’ rispetto a quella in cui si colloca la voce poetica. L’invettiva contro gli enses dei primi versi genera la fuga in un altrove temporale, una sorta di età dell’oro pastorale, in cui ricorrono alcuni elementi-chiave della campagna tibulliana: il semplice culto degli dei e la pastorizia . Data la contrapposizione tunc... nunc , in apertura dei distici 11-14, risulta esplicita la collocazione dell’ io parlante (Tib. 1, 10, 11-14):
Tunc mihi vita foret, volgi nec tristia nossem
arma nec audissem corde micante tubam;
nunc ad bella trahor, et iam quis forsitan hostis
haesura in nostro tela gerit latere.
È come se rispetto alla semplice enunciazione del Wunschtraum in Tib. 1, 1, il testo intendesse ora esplorare le stesse radici del sogno dell’età dell’oro: l’infanzia felice dell’umanità, descritta nei versi precedenti e successivi, è collegata all’infanzia della persona poetica. Il vagheggiamento della prima si alimenta della tenerezza suscitata da quest’ultima.
In definitiva, anche in Tib. 1, 10, il vagheggiamento della vita beata in campagna viene frammentato, attraverso piani temporali diversi, in rappresentazioni non direttamente collegate le une con le altre: l’età remota degli avi semplici contadini, ai vv. 1-24; l’improbabile Tibullo futuro agricoltore dei vv. 26-28; gli abitanti delle campagne i quali, nel mondo poetico tibulliano, anche oggi possono seguire uno stile di vita opposto a quello bellico (vv. 39-66). L’unico elemento che unifichi questi diversi pannelli, creando la prospettiva, l’effetto di lontananza attraverso cui essi sono rappresentati, è la trama degli angosciati richiami ad una realtà ben diversa. E sarà ormai chiaro come per ‘realtà’ si intenda qui, semplicemente, all’interno dei diversi mondi fittizi che il testo crea, quello in cui la voce poetica colloca se stessa, attraverso i più semplici strumenti linguistici (l’articolazione delle persone, dei tempi e dei modi verbali, oltre che gli avverbi spaziali e temporali) .
Proseguendo l’analisi delle ‘prospettive’ da cui è osservato lo spazio bucolico-georgico nella sua versione idealizzata, dovremo rivolgerci a due elegie che al ciclo di Delia non appartengono: Tib. 2, 1 e 2, 5.
Se all’interno del ciclo di Delia intere elegie come la seconda, la sesta, o anche le sezioni ‘non rurali’ della prima, della terza e della quinta stanno a dimostrare come esso non abbia affatto come suo set esclusivo, né, direi, privilegiato la campagna più o meno a-culturale, per altro verso elegie come 1, 10; 2, 1 e 2, 5 mostrano che l’evasione in quest’ultima non è necessariamente legata alla storia d’amore con Delia (vd. 2, 1 e 2, 5), o ad un contesto erotico (vd. 1, 10).
La prima elegia del secondo libro è forse quella in cui l’‘intrusione’ dell’ io poetico nel mondo dei rura è spinta al più alto grado, peraltro in un componimento in posizione-chiave, all’interno dell’ arrangement del libro. Tuttavia tale identificazione non risulta mai completa, e non esclude, non appena il tema amoroso riappare, un ulteriore ‘squarcio prospettico’, che lascia intravvedere la realtà ‘urbana’ dell’amante. Esaminando più da vicino l’elegia tale assunto risulterà più chiaro.
Pochi sono gli affioramenti dell’ io del celebrante. Alcuni di essi, come al v. 1 ( fruges lustramus et agros ) e al v. 17 ( purgamus agros, purgamus agrestes ), lo accomunano nella prima persona plurale al mondo dei contadini, laddove anche l’invito contenuto nel v. 27 ( nunc mihi fumosos veteris proferte Falernos / consulis et Chio solvite vincla cado ) lo mette, per così dire, in rapporto diretto con tale realtà, mentre al v. 25 ( eventura precor ) egli assume semplicemente le funzioni dell’ augur , seppur sempre all’interno del contesto del sacrificio lustrale.
Tale temporaneo ‘riposizionamento’ della voce poetica rende possibile quello ‘squarcio prospettico’ che potremmo individuare ai vv. 69-70. Avendo introdotto il tema erotico all’interno della descrizione idillica dell’umanità primitiva, il testo compie quel balzo dal passato vagheggiato al crudo presente più volte incontrato nelle elegie qui esaminate, e ancora una volta la contrapposizione è marcata da una coppia avverbiale ( illic ... nunc ): se alla prima comparsa di Cupido sulla terra, in quel mondo primigenio ( illic ), il suo arco era ancora indoctus , oggi ( nunc ) egli è anzi troppo esperto (vv. 69-70):
Illic indocto primum se exercuit arcu:
ei mihi, quam doctas nunc habet ille manus!
L’idea poetica della vita beata nei campi resta del tutto estranea alle rimanenti elegie di tale libro, con l’eccezione di Tib. 2, 5, come anche alle ultime due elegie del corpus , per lo più considerate autentiche (3, 19 e 3, 20). In esse, l’ io poetico si presenta ormai stabilmente nella sua persona di amante cittadino, rovesciando anzi, in 2, 3, l’idea poetica in questione nel suo opposto. Su questa diversa raffigurazione, ‘realistica’, dello spazio rurale si veda infra il paragrafo 3.2. 5: per il momento, seguendo il filo della rappresentazione ‘idillica’ del rus , non resta che rivolgerci a Tib. 2, 5, l’elegia dedicata al sacerdozio di Messalino.
Elegia complessa, questa, e studiatissima, in cui il tema agreste diviene parte di un discorso dai rilevanti risvolti ideologici. La sua lettura imporrà una riflessione più profonda sui significati che la dimensione spaziale dei rura veicola, contrapponendosi ad altri spazi. Comunque, occorrerà prima completare l’analisi fin qui condotta, proponendo anche a proposito di Tib. 2, 5 delle brevi considerazioni sulle modalità dell’identificazione dell’ io poetico con lo spazio della campagna.
Nell’elegia, com’è noto, il ‘paradiso perduto’ bucolico trova dapprima un’ambientazione precisa: si tratta del sito di Roma anteriore alla fondazione della città (vv. 23-38). Ma, con un movimento circolare, l’ io poetico preconizza per un indefinito futuro il ritorno di quell’età felice, assumendo così ancora una volta le vesti del sacerdote-augure. Dopo aver riportato i vaticini della Sibilla, fino al triste presagio delle guerre civili, è egli stesso a chiedere ad Apollo di ‘sommergere sotto le acque’ quest’ultima ominosa profezia, e prefigura – alla fine della stagione oscura, si direbbe – una sorta di rinnovamento della felicità originaria dei contadini del Lazio (vv. 79-106). I contorni spaziali e temporali sono ormai del tutto sfumati, tuttavia non si può ignorare la chiara corrispondenza di questo pannello georgico con quello dei vv. 23-38, per quanto quest’ultimo sia più orientato in senso bucolico.
Pace tua pereant arcus pereantque sagittae,
Phoebe, modo in terris erret inermis Amor.
ars bona, sed postquam sumpsit sibi tela Cupido,
heu heu quam multis ars dedit ista malum!
et mihi praecipue: iaceo cum saucius annum
et faveo morbo, cum iuvat ipse dolor,
usque cano Nemesim, sine qua versus mihi nullus
verba potest iustos aut reperire pedes.
Anche in Tib. 2, 5 la voce autoriale non si presenta mai come interna al mondo rurale che canta: essa si appropria qui, come in 2, 1, di un carattere. sacrale, ma a differenza di essa non si ‘immerge’ nella mimesi del rito, e neppure si colloca all’interno di quel mondo sul piano del sogno e del desiderio, come invece avveniva in 1, 1; 1, 5, 19-36; 1, 10.
Che conclusioni trarre dunque dall’analisi fin qui condotta? Ovvero: qual è realmente, nelle elegie in cui ricorre il tema del vagheggiamento della vita rurale, il rapporto tra l’ io poetico e questo scenario, considerato così spesso come il fulcro delle simbologie spaziali nella poesia tibulliana?
Nondimeno, l’obiettivo primario dell’analisi fin qui condotta è consistito nel mostrare come, nonostante alcune delle elegie in cui appare il motivo dell’ eden agreste ricevano un particolare rilievo dalla loro posizione all’interno dell’ arrangement dei libri (si pensi a 1, 1; 1, 10 e 2, 1), in generale nelle rappresentazioni dell’altrove spaziale della campagna – che spesso è peraltro anche un altrove temporale (il remoto passato dell’umanità, o anche un indefinito futuro) – è rintracciabile un certo grado di ‘straniamento’, creato dal posizionarsi dell’ io poetico, o dal succedersi di una serie di suoi diversi posizionamenti.
Premesso dunque che la campagna tibulliana è comunque uno spazio ‘lontano’, anche solo della distanza che separa i sogni dalla realtà, bisognerà porre ora nuove domande ai testi già esaminati, chiedendosi quale sia da considerarsi lo spazio ‘vicino’, ovvero il piano di realtà contrapposto a quello bucolico-georgico, lo spazio ‘reale’ da cui si misura la distanza di quel sogno.
Anticiperemo subito che a nostro avviso le coordinate spaziali in cui la voce poetica sembra effettivamente collocarsi si articolano sostanzialmente a) nello spazio della città, sede della storia d’amore ‘elegiaca’ (vd. infra , 3.2.3), e b) nello spazio della guerra, ovvero nella lontananza forzata imposta dall’adesione ad uno stile di vita ‘anti-elegiaco’ ( infra , 3.2.4). A ciascuno di essi sarà dedicata nei prossimi due paragrafi una specifica trattazione.
Si è già accennato al fatto che un certo numero di elegie tibulliane prescelgono la città quale scenario, per così dire, standard della vicenda amorosa, osservando le convenzioni previste dal genere (dal genere comico prima ancora che da quello elegiaco). In poesie per Delia come Tib. 1, 2 e 1, 6, o per Nemesi, come 2, 4 e 2, 6, come in tutte le elegie per Marato (1, 4; 1, 8 e 1, 9), il posizionamento dell’ io poetico e della sua vicenda amorosa dentro lo spazio della città è legato al ricorrere di una serie di fondali topici – primo fra tutti il παρακλαυσίθυρον – oltre che da precisi rimandi ad uno scenario urbano fatto di vie e templi, tanto quanto dei costumi e dei riti della ‘società galante’ cittadina .
Tuttavia, anche un’elegia come 1, 5, in cui pure compare una delle formulazioni tibulliane del sogno agreste, è praticamente tutta ambientata sullo sfondo della città di Roma, la Roma sede dei riti per Trivia , dea ‘oscura’ venerata ai crocicchi delle strade , e soprattutto la Roma ambito esclusivo d’azione, secondo una precisa tradizione letteraria che affonda le sue radici nella commedia, del dives amator e della lena presenti ai vv. 47-48 del nostro testo. Solo nello scenario delle affollate vie della capitale (v. 63: in angusto... agmine turbae ) ha senso la profferta tibulliana di sé, in quanto amante pauper , insomma anti- dives amator , come servo accompagnatore ai vv. 61-66. Un servo disposto anche a farsi mezzana a sua volta, accompagnando la domina ... da altri amanti! Ai vv. 67-68, anzi, con nostra sorpresa appuriamo che per l’intera elegia la voce narrante si era collocata idealmente davanti alla ianua di Delia, e che abbiamo letto, per quasi settanta versi, un vero e proprio παρακλαυσίθυρον . Ai versi seguenti, peraltro, troveremo un terzo incomodo, il prossimo nella lista degli amanti della liberta fedifraga, aggirarsi davanti a quella stessa porta, intento a vagare pure lui irrequieto per le strade della città.
Così avviene anche in Tib. 1, 1, dal v. 55 in poi (e almeno fino al v. 74), ovvero in quella sezione dell’elegia che non presenta ‘marcatori di irrealtà’, si era dipanata con la massima naturalezza su uno sfondo urbano, con tanto di παρακλαυσίθυρον (vv. 55-56, ma si vedano anche i riferimenti comastici dei vv. 73-74), di inertia (v. 58: quanto siamo lontani dal progettato lavoro nei campi!) e persino di funerale, con concorso di popolo (vv. 65-66).
Il rus di Tibullo dunque, non è nella sua essenza diverso da quello di Teocrito e dei poeti ellenistici dell’ Anthologia Palatina , di cui ci siamo occupati nel paragrafo 1.1.3: una campagna ‘costruita’ mutando di segno i caratteri negativi della città, e vista con gli occhi del cittadino.
Si obietterà che nessun legame diretto riannoda i due mondi in Tib. 1, 1, quello dei campi e quello della città, lasciandoci di fronte alla contraddizione tra due personae poetiche, due discorsi amorosi incongruenti. Purnondimeno non possiamo ignorare che Tib. 1, 5 ‘risponde’ a Tib. 1, 1, e che nella quinta elegia del libro il legame esiste, ed è dolorosamente chiaro: la campagna non aveva rappresentato soltanto l’ipotesi di uno spazio in cui la vita non conoscesse ansia ed ambizione, ma soprattutto la possibilità di un luogo in cui l’amore ignorasse il tormento. Ipotesi che vive nel brevissimo intervallo tra la prima e la quinta elegia del primo libro: dopo Tib. 1, 5 Tibullo e la sua donna (adesso non più Delia, ma Nemesi) non abiteranno più insieme , da amanti, lo spazio non-urbano dell’evasione – neanche nel desiderio.
Come abbiamo visto, in 2, 1 Tibullo ‘entra’ in scena tramite la persona del celebrante del rito rustico, in quello spazio, ma con uno statuto ben particolare. Quando in Tib. 2, 1, 67-82 il testo lascia intravvedere nei modi più sfuggenti la figura di un irenico Amor delle campagne, e al v. 80 si invidia il felix nei confronti del quale placidus leniter adflat Amor , il poeta sembra estraneo a quella quieta felicità. Se consideriamo il contrasto con l’amante ‘urbano’ descritto nei versi precedenti, quell’amante cui il Tibullo delle altre elegie somiglia tanto, tutto sommato i contadini - alla cui festa il dio è invitato perché riponga frecce e fiaccole (vv. 81-82) - sembrano avere maggiori chances per accedere a quella condizione beata.
Già in Tib. 1, 1, 25-28, al centro della sezione ‘georgica’ dell’elegia, il poeta offriva infatti un primo chiaro ‘segnale di prospettiva’:
Iam modo iam possim contentus vivere parvo
nec semper longae deditus esse viae,
sed Canis aestivos ortus vitare sub umbra
arboris ad rivos praetereuntis aquae.
Tali annotazioni suonano del tutto condivisibili, inclusa quella contro l’ipotesi per cui “Tibullo si trova a Roma”: chi sarebbe, infatti, il ‘Tibullo’ in questione? L’autore, nel momento della composizione del testo (ma: della sua prima composizione, o delle sue revisioni?), o il personaggio, presupponendo dunque che in tutta l’elegia sia individuabile un’unica persona poetica, collocata in un coerente ed unitario quadro spaziale?
Rispetto alla semplicistica ricerca dell’‘ambientazione’ dell’elegia, tutt’altro genere di impostazione intendeva perseguire l’argomentazione condotta nel paragrafo precedente, quando, partendo dall’idea della complessa e anche contraddittoria pluralità delle personae poetiche, abbiamo esaminato le diverse coordinate spaziali che si delineano nelle varie sezioni del componimento, ed ho cercato di evidenziare un posizionamento ‘urbano’ dell’ io poetico in uno dei piani della rappresentazione, ed anche, su un altro piano, connotato come irreale, un posizionamento ‘rustico’, giustapposto e forse anche contrapposto a quello.
Nell’intricata trama delle simbologie spaziali di Tib. 1, 1 ecco dunque aprirsi una terza dimensione: da una parte, abbiamo visto, lo spazio sognato dei rura , in cui l’ io poetico proietta un altro sé; dall’altra, quello della città, all’interno del quale questo si colloca, invece, con la massima naturalezza. Terzo, va aggiunto, lo spazio della lontananza, le longae viae , contrapposto anch’esso, anche più direttamente, all’evasione georgica.
Prima di continuare su questa traccia interpretativa, sarà però opportuno tornare con maggior attenzione sul significato della metafora stessa delle viae : se questa implichi prioritariamente l’idea delle campagne militari ovvero dello spazio della guerra, o parimenti anche quella della mercatura, è questione che merita ulteriori riflessioni.
Nella variegata caratterizzazione dell’ alius , del bersaglio della polemica sugli stili di vita, si alternano e si confondono numerose forme di attività: in Tib. 1, 1, 1-4 è chiaramente ombreggiata la proprietà agraria latifondistica, mentre ai vv. 49-52 ci imbattiamo in un quadro più complesso (Tib. 1, 1, 49-56):
Hoc mihi contingat. sit dives iure, furorem
qui maris et tristes ferre potest pluvias.
o quantum est auri pereat potiusque smaragdi,
quam fleat ob nostras ulla puella vias.
te bellare decet terra, Messalla, marique,
ut domus hostiles praeferat exuvias;
me retinent vinctum formosae vincla puellae,
et sedeo duras ianitor ante fores.
Hic ego dux milesque bonus: vos, signa tubaeque,
ite procul, cupidis volnera ferte viris,
ferte et opes: ego conposito securus acervo
despiciam dites despiciamque famem.
In primo luogo, l’intera struttura dell’elegia, come abbiamo visto, sottende un dualismo tra la dura realtà cittadina dell’amante elegiaco e il sogno d’un ‘altro’ amore, in un contesto georgico-bucolico, che scaturisce dal rovesciamento di quello. Rileggendo poi i vv. 25-28, ci siamo accorti come, in modo anche più evidente, la dimensione rurale sia generata dal bisogno di ‘esorcizzare’ la realtà della longa via , della guerra. Una seconda opposizione, dunque, cui però bisognerà aggiungerne, quasi circolarmente, una terza.
Infatti, i già riportati vv. 49-56 contrappongono inequivocabilmente le viae – per cui Tibullo dice di non essere disposto a far piangere la propria donna – non più al mondo dei campi, ma alla ‘quotidianità’ urbana dell’amante. Tibullo rifiuta di partire, come Messalla, per continue campagne militari, dichiarandosi imprigionato dai vincla dell’amore dietro la porta dell’amata, alla stregua di uno schiavo ianitor , e anzi auspicando per sé, nei versi seguenti, una vita siffatta.
Da una tale analisi emerge dunque per l’elegia 1, 1 una dinamica che coinvolge tre dimensioni. Sullo sfondo sta la dimensione urbana. Condizione-base dell’amore elegiaco, pienamente interna alle condizioni del genere, la ritroveremo nella maggior parte delle elegie tibulliane – oltre che, naturalmente, negli altri elegiaci. Con essa convive una seconda dimensione, ‘anti-elegiaca’, ma anch’essa presentata come appartenente alla ‘realtà’ dell’ io elegiaco: la longa via.
Come già anticipato, Tib. 1, 1 non rappresenta l’unica elegia in cui la dimensione idillica della campagna idealizzata venga ‘generata’ come una risposta diretta alla dimensione del viaggio, e specificamente della guerra. Intermini ridotti, è quanto succede nel già citato passaggio di Tib. 1, 2, 67-80, che converrà qui riportare per intero:
Ferreus ille fuit, qui, te cum posset habere,
maluerit praedas stultus et arma sequi.
ille licet Cilicum victas agat ante catervas,
ponat et in capto Martia castra solo,
totus et argento contextus, totus et auro
insideat celeri conspiciendus equo,
ipse boves mea si tecum modo Delia possim
iungere et in solito pascere monte pecus,
et te, dum liceat, teneris retinere lacertis,
mollis et inculta sit mihi somnus humo.
quid Tyrio recubare toro sine amore secundo
prodest, cum fletu nox vigilanda venit?
nam neque tum plumae nec stragula picta soporem
nec sonitus placidae ducere posset aquae.
Illic sit, quicumque meos violavit amores,
optavit lentas et mihi militias.
Tanto sia detto solo per precisare come anche l’immaginazione dell’Elisio e del Tartaro derivi direttamente dalla violazione ‘spaziale’ dei confini chiusi del mondo amatorio elegiaco, come già prima – nulla di nuovo, per noi – era avvenuto per il quadro di tono bucolico dell’età di Saturno (vv. 35-48).
In verità, in poche occasioni come in Tib. 1, 3 è così chiaro che lo spazio della campagna sia generato direttamente come ‘risposta’ alla dimensione negativa del viaggio, sin dalla sua prima introduzione (Tib. 1, 3, 35-36):
Quam bene Saturno vivebant rege, priusquam
tellus in longas est patefacta vias!
nondum caeruleas pinus contempserat undas,
effusum ventis praebueratque sinum,
nec vagus ignotis repetens conpendia terris
presserat externa navita merce ratem.
illo non validus subiit iuga tempore taurus,
non domito frenos ore momordit equus,
non domus ulla fores habuit, non fixus in agris,
qui regeret certis finibus arva, lapis.
ipsae mella dabant quercus, ultroque ferebant
obvia securis ubera lactis oves.
non acies, non ira fuit, non bella, nec ensem
inmiti saevus duxerat arte faber.
nunc Iove sub domino caedes et vulnera semper,
nunc mare, nunc leti mille repente viae.
In diretta antitesi (si veda la triplice anafora di nunc ai vv. 49-50) sta l’età presente, caratterizzata da tre elementi: caedes et vulnera , ovvero la guerra; mare , antonomasia del viaggio verso luoghi lontani; e la loro efficacissima sintesi poetica, l’immagine delle leti... viae . Non si sarebbe potuto identificare in modo più icastico la dimensione rappresentata dalle longae viae con lo spazio della morte.
At scelerata iacet sedes in nocte profunda
abdita, quam circum flumina nigra sonant:
Tisiphoneque inpexa feros pro crinibus angues
saevit, et huc illuc inpia turba fugit.
tum niger in porta serpentum Cerberus ore
stridet et aeratas excubat ante fores.
illic Iunonem temptare Ixionis ausi
versantur celeri noxia membra rota,
porrectusque novem Tityos per iugera terrae
adsiduas atro viscere pascit aves.
tantalus est illic, et circum stagna, sed acrem
iam iam poturi deserit unda sitim,
et Danai proles, Veneris quod numina laesit,
in cava Lethaeas dolia portat aquas.
Non stupisce ritrovare nella scena del Tartaro il tratto dell’oscurità (v. 67: in nocte profunda ; v. 68: flumina nigra ; v. 71: niger... Cerberus ; v. 76: atro viscere ), già connesso all’idea della morte nell’attacco dell’elegia (vv. 4-5: Mors... nigra... / Mors atra ), ma sarà forse più interessante notare come, mentre gli Elisi conoscevano solo lo spensierato vagare dei danzatori (v. 59), la scena infera sia invece dominata un affannoso, continuo movimento (vv. 69-70: Tisiphoneque... / saevit et huc illuc inpia turba fugit ; vv. 73-74: Ixionis... / versantur celeri noxia membra rota ; vv. 77-78: … acrem / iam iam poturi deserit unda sitim ; vv. 79-80: Danai proles... / in cava Lethaeas dolia portat aquas ) e da segni che rimandano all’elemento mobile per antonomasia, l’acqua (vv. 67-68: sedes... / abdita, quam circum flumina nigra sonant ; vv. 77-78: … Tantalus est illic, et circum stagna / ...unda... ; vv. 79-80, già citati).
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( a ) vv. 1-8 |
Situazione iniziale e invocazione alla Mors |
( b ) vv. 9-34 |
Partenza (‘colpa’) e invocazione di Iside (passato prossimo) |
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( c ) vv. 35-48 |
Felicità nel passato remoto dell’età dell’oro |
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( d ) vv. 49-56 |
Invocazione di Giove e morte di Tibullo |
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( e ) vv. 57-66 |
Vita degli amanti nell’Elisio |
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( f ) vv. 67-82 |
Vita dei sacrileghi nel Tartaro |
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( g ) vv. 83-94 |
Immaginario ritorno di Tibullo alla vita con Delia |
per rilevare come in essa sia anche rinvenibile un pattern binario di alternanze spaziali. Il gioco di specchi viene innescato dall’enunciazione del tema del viaggio, collegato con quello della malattia e della morte ( a-b ); questo genera, per contrasto, la sua antitesi, il mondo bucolico dell’età di Saturno, privo di viae ( c ); da qui, un brusco salto temporale verso il presente, che è anche un ritorno allo spazio della guerra e della morte ( d ); anche da questo scaturisce però l’evasione verso uno spazio – stavolta ultraterreno – dai caratteri bucolici ( e ); in ( f ), un nuovo rovesciamento ci conduce dai Campi Elisi nel Tartaro, luogo che coniuga il lato ‘oscuro’ della morte a caratteri di frenetica dinamicità, e infine con ( g ) il ritorno immaginato di Tibullo da Delia conclude il movimento pendolare delle sezioni dell’elegia, non più però nella direzione di una utopia anti-urbana, bensì facendo tornare la persona elegiaca nello spazio ‘normale’ della liaison amorosa, realizzando un evidente effetto di Ringkomposition rispetto a ( b ).
Alla rappresentazione della prima dimensione sottrae qualcosa in vividezza il tono gnomico del componimento, eppure già al v. 4 compare la metafora (già incontrata in Tib. 1, 3, 50) delle ‘vie della morte’ (Tib. 1, 10, 4: Tum brevior dirae mortis aperta via est ), rovesciata poi nell’immagine della morte stessa che cammina comunque verso l’uomo, e che la follia bellica addirittura ‘convoca’, fa affrettare (vv. 33-34; Q uis furor est atram bellis accersere mortem? / inminet et tacito clam venit illa pede ).
Carpite nunc, tauri, de septem montibus herbas,
dum licet: hic magnae iam locus urbis erit.
Roma, tuum nomen terris fatale regendis,
qua sua de caelo prospicit arva Ceres,
quaque patent ortus, et qua fluitantibus undis
solis anhelantes abluit amnis equos.
Troia quidem tunc se mirabitur et sibi dicet
vos bene tam longa consuluisse via.
Dalle elegie fin qui analizzate affiora dunque una forma definita e coerente di trattamento dello spazio nell’elegia tibulliana, secondo cui l’orizzonte – interno alla ‘realtà’ dell’ io poetico – degli spazi ‘aperti’ ed inquietanti del viaggio, legato a doppia mandata ai motivi della guerra e della morte, genera direttamente, come sua controparte ed esorcizzazione poetica, l’utopia bucolico-georgica.
Oltre a tale modulo ricorrente, però, esistono nel mondo di Tibullo altre forme di trattamento ed utilizzo simbolico dello spazio ‘esterno’, del viaggio: ad esse converrà dedicare una breve trattazione autonoma, prima di tornare sulle ascendenze letterarie della contrapposizione spaziale guerra/campagna.
Castra Macer sequitur : tenero quid fiet Amori?
sit comes et collo fortiter arma gerat?
et seu longa virum terrae via seu vaga ducent
aequora, cum telis ad latus ire volet?
ure, puer, quaeso, tua qui ferus otia liquit ,
atque iterum erronem sub tua signa voca .
quod si militibus parces, erit hic quoque miles,
ipse levem galea qui sibi portet aquam.
castra peto , valeatque Venus valeantque puellae:
et mihi sunt vires, et mihi facta tuba est.
magna loquor, sed magnifice mihi magna locuto
excutiunt clausae fortia verba fores .
iuravi quotiens rediturum ad limina numquam !
cum bene iuravi, pes tamen ipse redit .
La lettura di Tib. 2, 6 ci ha dunque portato al di fuori del tema dell’idealizzazione del mondo dei campi. Ancora più lontano ci conduce altresì la temperie poetica di Tib. 2, 3, l’elegia più distante da tale asse poetico.
Quella ‘molteplicità’ della poesia tibulliana da cui abbiamo preso le mosse all’inizio del presente capitolo (cfr. supra , paragrafo 3.1), permette dunque la coesistenza nello stesso corpus poetico della persona del contadino particolarmente devoto ai Lares , degli dei dello spazio ‘interno’, rassicurante, della casa (Tib. 1, 1, 20; 1, 3, 34; 1, 10, 15), accanto a quella del sacrilego disposto a venderli per raggranellare il denaro necessario ad assicurarsi ancora per un po’ i favori di Nemesi (Tib. 2, 6, 51-54) e a quella del ‘contadino’. Non desterà dunque meraviglia rinvenire, in altri passi della produzione tibulliana, una positiva adesione alla stessa idea del viaggio.
In primo luogo, è possibile citare un’elegia assai importante per lo sviluppo successivo del genere, in quanto mostra la tentazione sotterranea del discorso elegiaco di farsi didascalica amorosa, codificazione di se stesso – tentazione che sfocerà, come è noto, nell’ Ars amatoria di Ovidio: ci riferiamo, com’è ormai chiaro, a Tib. 1, 4 .
Il fascino dell’esotico, dunque, trova spazio anche nella poesia tibulliana, e soprattutto – elemento fondamentale, quasi unico all’interno del genere – non nell’ottica della recusatio , per cui ‘è permesso’ al poeta elegiaco compiacersi dei viaggi di amici o patroni , pur optando per sé un’altra vita. Come premesso, sono molte le personae poetiche che convivono nella raccolta tibulliana. Accanto a quella di Tib. 1, 1 o di 1, 3, che desidera liberarsi dalla schiavitù della longa via , contrapponendole, nella creazione letteraria, eden bucolici, esiste anche quella che, in 1, 7, 9 rivendica con orgoglio: non sine me est tibi partus honos .
Appurato dunque che il pattern di contrapposizioni spaziali individuato nei paragrafi 3.2.3 e 3.2.4 non esaurisce le possibilità delle rappresentazioni dell’‘esterno’ nella complessa poesia tibulliana, rimane il fatto che esso costituisce, se non una costante, un elemento indubbiamente ricorrente nella produzione di Tibullo. È nostra intenzione adesso, in conclusione dell’analisi delle simbologie spaziali tibullane, sottoporre a verifica una suggestione che devo a Paolo Fedeli: che il pattern cui facevo riferimento, e in particolare l’elaborazione del tema della rêverie bucolico-georgica di Tibullo, costituisca una ‘risposta’ poetica alla decima ecloga di Virgilio.
Al fine di cogliere appieno la portata della decima ecloga virgiliana per la costruzione delle simbologie spaziali tibulliane, dobbiamo però compiere un altro passo: chiederci anche per Gallo, come per l’ io elegiaco tibulliano, da cosa egli fugga, ovvero qual è la dimensione spaziale che, oltre a quella ‘urbana’ implicita nell’ ethos dell’amore elegiaco, caratterizza il suo ‘piano di realtà’.
La risposta non potrebbe essere più evidente, se guardiamo ai punti in cui la realtà fa la sua irruzione devastando il mondo dell’idillio, ossia il discorso di Apollo (Verg. Buc. 10, 22-23):
‘ Galle, quid insanis?’ inquit ‘Tua cura Lycoris
perque nives alium perque horrida castra secuta est.’
e quel passaggio che Servio ci dice essere stato tutto ‘preso dai versi dello stesso Gallo’ (Verg. Buc. 10, 44-49):
Nunc insanus amor duri me Martis in armis
tela inter media atque adversos detinet hostis.
tu procul a patria (nec sit mihi credere tantum)
Alpinas, a! dura nives et frigora Rheni
me sine sola vides. a, te ne frigora laedant!
a, tibi ne teneras glacies secet aspera plantas!
Anche per il personaggio elegiaco di Gallo, così come esso traluce dal palinsesto virgiliano, la scaturigine del desiderio di evasione è nella dura esperienza delle interminabili vie della guerra.
Come ha messo in luce Conte, nella decima ecloga lo spazio è lo strumento per veicolare una complessa rete di simbologie, che in Virgilio si caricano di un intricato sovrasenso metaletterario. Ma la sua articolazione di fondo appare identica a quella che ritroveremo nell’inquieta sperimentazione che sulle categorie spaziali opererà Tibullo: sul piano della ‘realtà’, la città, il luogo del tormentoso amore elegiaco, e le longae viae , spazio anti-elegiaco per antonomasia. In opposizione ad essi, una ‘fuga verso l’interno’ proietta nella dimensione del sogno un loro doppio negativo: quel mondo dei rura in cui un’altra forma di amore è forse possibile.
Il capitolo precedente, dedicato alla poesia tibulliana, prendeva le mosse da un’osservazione preliminare, relativa alle idee di ‘modularità’ e di ‘pluralità’ all’interno della poesia tibulliana. La poesia tibulliana, sia a livello ‘micro’, nella composizione delle singole elegie, sia a livello ‘macro’, ovvero nel sistema complessivo dei due libri autentici, appare caratterizzata dalla compresenza di svariati pannelli, temi, cicli, soggetti e oggetti del desiderio. Anche la nostra trattazione ha dunque assunto una forma ‘plurale’, seguendo le contrapposizioni tra differenti dimensioni spaziali, tra cui lo spazio della città e dell’amore infelice, lo spazio della guerra, e quello del sogno rurale.
In modo del tutto diverso, il presente capitolo sarà costruito, come spesso avviene per le singole elegie di Properzio, intorno ad una tematica centrale, alle contrapposizioni che essa genera, ed alle variazioni che ne scaturiscono all’interno dell’inquieta ricerca che caratterizza la successione dei libri dell’Assisiate.
Il nostro assunto di fondo è che il mondo spaziale di Properzio si strutturi intorno ad un nucleo fondamentale, in relazione al quale si definiscono, ed assumono senso, gli altri spazi, in modo mai neutrale dal punto di vista ideologico, se non altro relativamente a quella peculiare ‘ideologia poetica’ che costituisce il carattere distintivo della produzione elegiaca e che proprio in Properzio trova alcune delle sue formulazioni più significative. Tale baricentro della produzione properziana è sostanzialmente definito dal luogo in cui risiede l’amata, tuttavia esso si incarna volta per volta in àmbiti spaziali diversi, vorremmo dire su scale diverse. Esso può precisarsi nello spazio della casa, identificato, esemplarmente, nel suo limite sacrale, la soglia ( fores , limen , ianua ); ma più spesso esso si incarna in quello che è, per Properzio, il luogo poetico per eccellenza: la città di Roma.
Sia detto comunque sin d’ora che il tentativo di tenere sistematicamente separate nel corso dell’analisi le diverse tematiche esaminate, e in particolare le diverse declinazioni della polarità di fondo tra ‘interno’ ed ‘esterno’, in chiave ora erotica, ora esistenziale, ora metapoetica, è dettato da pura comodità espositiva: molti dei paragrafi che a questi singoli aspetti saranno dedicati non costituiranno altro che punti di osservazione diversi da cui guardare al medesimo nodo che nella produzione poetica properziana, secondo le convenzioni letterarie elegiache, lega vita, amore, poesia, anche in relazione alle simbologie spaziali.
Praeda sit haec illis, quorum meruere labores:
me sat erit Sacra plaudere posse Via.
Abbiamo visto nei due passaggi testé citati esempi di come la città di Roma, nella sua concretezza topografica, possa entrare in rapporto con l’aspetto gioioso della storia d’amore elegiaca: eppure, proseguendo, l’analisi ci porterà a constatare, forse con qualche sorpresa, che non è questo il caso più frequente nelle raccolte poetiche properziane. Se il materializzarsi della topografia di Roma nel liber di Catullo rispondeva ancora ad una semplice ‘scoperta poetica della città’ nel quadro di una entusiastica adesione all’ideale dell’ urbanitas , nella poesia properziana l’etica erotica assume una dimensione talmente totalizzante da riverberare coloriture simboliche, non sempre positive, anche sulle articolazioni interne dello spazio della città.
In primo luogo, si può fare riferimento ad un tema che attraversa il secondo libro, per poi tornare anche nei successivi: i luoghi della città in cui va in scena la vita galante degli amori clandestini sono potenzialmente ostili alla fides della coppia elegiaca, che pure, in quanto ‘irregolare’, ad essi è ben familiare.
Nullane sedabit nostros iniuria fletus?
an dolor hic vitiis nescit abesse tuis?
tot iam abiere dies, cum me nec cura theatri
nec tetigit Campi, nec mea mensa iuvat.
Et quaerit totiens ‘Quaenam nunc porticus illam
integit?’ et ‘Campo quo movet illa pedes?’
Contra, reiecto quae libera vadit amictu,
custodum et nullo saepta timore, placet.
cui saepe immundo Sacra conteritur Via socco,
nec sinit esse moram, si quis adire velit.
Agli antipodi, dicevo, si colloca Prop. 2, 22a, il cui tema di fondo è anch’esso esposto con tono gnomico negli ultimi due versi (vv. 41-42):
Nam melius duo defendunt retinacula navim,
tutius et geminos anxia mater alit.
Scis here mi multas pariter placuisse puellas;
scis mihi, Demophoon, multa venire mala.
nulla meis frustra lustrantur compita plantis;
o nimis exitio nata theatra meo .
Se dunque il teatro, il simbolo primo dell’eterogamia anti-elegiaca, diviene fonte di vanto personale nel particolare contesto di 2, 22a, solo poche elegie prima i ludi erano stati fonte di angosciose preoccupazioni per il Properzio innamorato e geloso di 2, 19, 1-10:
Etsi me invito discedis, Cynthia, Roma,
laetor quod sine me devia rura coles.
nullus erit castis iuvenis corruptor in agris,
qui te blanditiis non sinat esse probam;
nulla neque ante tuas orietur rixa fenestras,
nec tibi clamatae somnus amarus erit.
Sola eris et solos spectabis, Cynthia, montis
et pecus et fines pauperis agricolae.
illic te nulli poterunt corrumpere ludi
fanaque, peccatis plurima causa tuis.
Non ci stupiremo dunque nel trovare, nella formula legis che Cinzia impone all’amante in 4, 8, 75-80 per prevenirne i futuri tradimenti, una serie di interdizioni legate a precisi luoghi della città, dal portico di Pompeo al Foro, dal teatro alle stesse strade in cui è possibile farsi trasportare in lettiga:
Tu neque Pompeia spatiabere cultus in umbra,
nec cum lascivum sternet harena Forum.
colla cave inflectas ad summum obliqua theatrum,
aut lectica tuae se det aperta morae.
Lygdamus in primis, omnis mihi causa querelae,
veneat et pedibus vincula bina trahat.
Cur exempla petam Graium? tu criminis auctor,
nutritus duro, Romule, lacte lupae:
tu rapere intactas docuisti impune Sabinas:
per te nunc Romae quidlibet audet Amor.
La presenza dei Realien urbani nel liber catulliano esulava spesso dai contesti erotici: i luoghi passati in rassegna in Cat. 55 appartengono alla vita dell’amico Camerio, non entrano in relazione con la storia d’amore tra il poeta e Lesbia; così anche il tempio di Serapide in Cat. 10 è chiamato in causa in un componimento ‘leggero’, legato al tema dell’amicizia, e lo stesso può dirsi per altre simili menzioni dei luoghi della città (Cat. 14a, 17-18 e 33, 1). Diversamente, anche nella silloge del poeta neoterico, ‘reagiva’ l’elemento realisticamente topografico con il tema amoroso: la salax taberna del carme 37 ed i quadrivia et angiporta di Cat. 58a sono i luoghi in cui si consumano i tradimenti di Lesbia.
In Properzio, come appare già chiaro dal breve dossier raccolto, la rappresentazione della realtà urbanistica di Roma non si comprende, nella maggior parte dei casi, se non mettendola in relazione con la dimensione totalizzante dell’etica erotica: gli spazi della vita urbana, quando assumono tale grado di concretezza, si collocano ‘al di fuori’ dello spazio chiuso della coppia elegiaca. Non deve però sfuggire la natura profondamente contraddittoria di questo atteggiamento verso gli spazi della città, e quindi verso la vita galante che in quegli spazi si riassume.
Quos igitur tibi custodes, quae limina ponam,
quae numquam supra pes inimicus eat?
Ancora una volta, la rispondenza dei comportamenti di Cinzia all’ideale dell’amore elegiaco si misura attraverso simbologie spaziali: il desiderio di Properzio di ‘chiudere’ la donna all’interno dello spazio della casa è destinato alla frustrazione; Cinzia non ‘ama’ il suo limen , e somiglia in questo più alle meretrici con le loro ‘case aperte’ a tutta la Grecia che alla fedele Penelope.
Tandem te nostro referens iniuria lecto
I due amanti si collocano pur sempre ‘al di qua’ della linea del proibito nell’ottica del mos maiorum , e se esiste una Roma, quella dei portici e dei teatri, che, nei momenti di gelosia o di difficoltà della coppia può sembrare loro troppo libertina, non va dimenticato che ne esiste anche un’altra, quella del Foro, dei benpensanti, ancor più irriducibilmente lontana dal mondo dell’amore elegiaco, e invariabilmente pronta a giudicarlo.
Sempre limitandoci agli unici punti del canzoniere properziano in cui siano in gioco quelle che abbiamo chiamato ‘simbologie spaziali’ (il discorso, altrimenti, ci porterebbe troppo oltre), potremmo chiudere questa carrellata con un’ultima elegia, nella quale si misura assai bene la distanza tra la Roma ‘catoniana’ e gli orizzonti del poeta-amante. Si tratta di Prop. 3, 14, costruita sulla contrapposizione tra due città, Roma e Sparta. La prima, biasimata perché i suoi usi, e in particolare la folla che accompagna (e sorveglia) le fanciulle quando escono di casa, impediscono gli approcci; la seconda, lodata perché le sue leggi non prevedono la separazione degli spazi maschili e femminili, ma anzi permettono agli amanti di frequentare insieme palaestrae , gymnasia , e persino di incontrarsi nei trivia .
Le forme di estraneità degli spazi urbani di Roma all’ eros elegiaco in Properzio, così frequenti eppure così contraddittorie tra di loro, sembrano dunque riproporre la problematicità dell’atteggiamento del poeta nei confronti del sistema di valori quiritario: la coppia elegiaca, abbiamo detto, nasce nel mondo degli amori galanti, che si incarna nelle vie, nei teatri e nei portici di Roma; l’‘altra’ Roma, quella dei Catones , le è ostile ed estranea. Eppure quando questa topografia ‘libertina’ fa la propria comparsa nei versi del poeta essa non può evitare di entrare in relazione con l’ ethos elegiaco. E non di rado finisce per rivelarsi a sua volta estranea a tale ethos , pericolosa nelle sue spinte ‘centrifughe’ al tradimento.
Dall’esame sin qui condotto stanno dunque emergendo alcune prime risposte alle domande poste sul rapporto di Properzio con il mondo dell’ Urbs , e dunque, imprescindibilmente, con la contemporaneità. Si tratterà inevitabilmente di riposte complesse poiché Properzio è un poeta complesso, problematico, nei cui versi non ha senso cercare armonici sistemi concettuali, ideologie coerenti. Infatti, al loro posto è più facile trovare la contraddizione, la ricerca poetica ora letterariamente giocosa, ora inquieta fino al rovello, intorno a temi e motivi.
Quanto abbiamo visto emergere dall’analisi fin qui condotta sembra correggere l’impostazione ‘ottimistica’ di La Penna, ma – qui sta il punto – senza bisogno di spostare il baricentro del discorso sul piano della realtà sociale di Roma, come fa Scivoletto. In primo luogo, credo si possa affermare che, tranne pochi casi, le emergenze di frammenti della topografia urbana nei versi di Properzio, lungi dal costituire un fondale neutro, entrano in stretto rapporto con l’ ethos elegiaco, divenendo così vettori di simbologie spaziali legate a quest’ultimo.
In secondo luogo, ed è questo forse il dato più inaspettato, quando abbiamo allargato l’analisi delle menzioni della topografia di Roma, anche della scintillante Roma mondana, ai contesti in cui essa viene citata, e dunque al modo in cui i luoghi dell’ Urbs si innestano nel discorso amoroso, abbiamo notato come in prevalenza essi si trovino collegati a forme di negazione della dimensione assoluta dell’amore elegiaco. Tale negazione, a volte, appare legata all’estraneità dell’ambiente culturale quiritario rispetto all’esperienza amorosa elegiaca, nondimeno, assai più spesso, rimanda alla prospettiva che gli spazi ‘aperti’ della vita mondana causino o assecondino la deflaglazione dell’equilibrio ‘chiuso’ della coppia.
Come ho già anticipato, oltre al rapporto peculiare con lo spazio ‘interno’ del limen domestico e con la città di Roma l’altro grande àmbito in cui si addensano le simbologie spaziali nella poesia properziana sembra essere costituito dal tema del viaggio, e in generale degli spazi ‘esterni’ alla stessa città.
Ma tanto non basterebbe – né era questo l’intendimento del saggio lapenniano – per concludere che la cifra dell’atteggiamento properziano verso l’‘altrove’, gli spazi esterni alla realtà quotidiana di Roma, e in particolare verso il viaggio, sia costituita dal desiderio dell’evasione. Al contrario, la tesi che cercheremo di dimostrare in queste pagine, e che è il tema del viaggio, e con esso l’intera dimensione spaziale che si apre oltre delle mura della città, rappresenti una vera e propria ossessione properziana, rivelando nel suo complesso ben altra attitudine rispetto al desiderio di fuoriuscire dallo spazio ‘normale’ della relazione amorosa, la città.
In sintesi si potrà affermare che Roma, quando non è vista nella sua cartografia interna, ma viene concepita in relazione all’esterno, tende a costituirsi come proiezione dello spazio ‘chiuso’ dell’amore elegiaco: ciò che si pone al di fuori di essa si pone anche al di fuori della dimensione dell’ eros . L’analisi delle singole elegie ci consentirà di sottoporre a verifica tali premesse.
Prenderemo le mosse dalla forma più semplice, e senz’altro più comune, che il motivo del viaggio assume nella poesia properziana: la fuga della domina infedele dall’area cittadina, intesa come infrazione al patto d’amore.
In tale ottica, nelle due elegie in questione la natura ‘anti-elegiaca’ del viaggio scaturisce da una duplice fonte. In primo luogo, come si è detto, il viaggio che Cinzia stava per intraprendere sarebbe coinciso con un tradimento, anzi un vero e proprio discidium , vista la portata di un itinerario verso una meta così lontana, e soprattutto in considerazione del quadro raffigurato nella decima ecloga virgiliana. In secondo luogo, il praetor incarna, diremmo nel modo peggiore, la scelta di vita opposta a quella dell’amante elegiaco: dietro la sua andata in Illiria stanno sia gli honores della carriera politico-militare, sia la mentalità crematistica che già Catullo aveva stigmatizzato con crudo realismo nel mondo delle cohortes praetoriae .
In 1, 8 trova piena espressione la peculiare concezione properziana della centralità di Roma, estranea ad ogni presupposto nazionalistico, legata alla sua identificazione con l’àmbito dell’amore elegiaco. Ancora una volta, a disegnare le coordinate spaziali del mondo poetico properziano, è la dimensione assolutizzante dell’ ethos elegiaco (Prop. 1, 8, 31-32):
Illi carus ego et per me carissima Roma
dicitur, et sine me dulcia regna negat.
An te nescio quis simulatis ignibus hostis
sustulit e nostris, Cynthia, carminibus?
atque utinam mage te, remis confisa minutis,
parvula Lucrina cumba moretur aqua,
aut teneat clausam tenui Teuthrantis in unda
alternae facilis cedere lympha manu,
quam vacet alterius blandos audire susurros
molliter in tacito litore compositam,
ut solet amoto labi custode puella,
perfida communis nec meminisse deos.
Che anche la più breve gita fuori porta possa costituire una violazione della ‘clausola spaziale’ del foedus elegiaco è mostrato ulteriormente, qualora ce ne fosse bisogno, da due elegie di cui ci siamo già occupati per aspetti specifici: Prop. 2, 32 e 4, 8.
Falleris, ista tui furtum via monstrat amoris:
non urbem, demens, lumina nostra fugis!
Ecco dunque tornare l’odiata via , il tabù elegiaco cui il pronome ista associa una ovvia connotazione di disprezzo. Accanto ad essa si individua una delle espressioni più intense di quello stretto connubio tra lo spazio della città nella sua globalità e l’ eros elegiaco: per Cinzia sfuggire la città significa sfuggire i lumina dell’innamorato.
Sin autem longo nox una aut altera lusu
consumpta est, non me crimina parva movent.
Tyndaris externo patriam mutavit amore,
et sine decreto viva reducta domum est.
Et merito, quoniam potui fugisse puellam,
nunc ego desertas alloquor alcyonas.
Infine, in questa rubrica trova posto la trattazione di un’elegia che, in verità, sfugge in larga parte agli schemi che tentiamo di rintracciare nel trattamento properziano del tema del viaggio: si tratta di Prop. 2, 26, componimento che apre la strada, seppur ancora in modo assai controverso, al tema del ‘viaggio degli amanti’, destinato a ben più ampio sviluppo nell’elegia ovidiana.
A questo punto segue, fino al v. 56, il quadro di cui giustamente La Penna evidenzia l’aspetto idillico e quasi onirico: la quasi sovrannaturale pacificazione degli elementi è un privilegio che il poeta immagina possa essere accordato agli amanti per la speciale protezione di Nettuno e dagli altri dei degli elementi naturali.
Anche la sola 2, 26b (esclusi dunque i versi precedenti al v. 21) costituisce pur sempre una declinazione, seppure ad un certo punto variata in un modo affascinante quanto inatteso, del paradigma ‘negativo’ del viaggio – in questo caso, però, come giustamente scrive lo stesso La Penna, non come punizione di un crimen amoris , bensì al contrario come eroico cimento della fides , se necessario fino al sacrificio della vita.
L’analisi delle diverse sezioni di Prop. 2, 26 ci ha dunque posti di fronte ad un’articolazione più complessa del rapporto tra viaggio ed eros elegiaco. Da quest’angolo visuale un’elegia come Prop. 3, 16 presenta una situazione per taluni versi parallela a quella presupposta da 2, 26b.
Dopo aver indagato le diverse forme di rapporto intercorse tra il tema del viaggio e il codice etico elegiaco, dai viaggi (o anche le semplice escursioni) legate al tradimento, a quelli rappresentativi di una forma di poena per chi ha osato infrangere il numen amoris (come avveniva già in Tib. 2, 3) o viceversa di cimento per dimostrare l’assolutezza della fides del poeta-amante, giungiamo ad occuparci di elegie in cui il rifiuto della prospettiva del viaggio ha a che fare con il tema, di origine diatribica, della Lebenswahl , la scelta di vita, e per questa via interagisce con la dimensione amorosa.
An mihi sit tanti doctas cognoscere Athenas
atque Asiae veteres cernere divitias.
… hic ampla nepotum
spes et venturae coniugis aptus amor.
Seu pedibus Parthos sequimur seu classe Britannos,
et maris et terrae caeca pericla latent
Nunc Iove sub domino caedes et vulnera semper,
nunc mare, nunc leti mille repente viae.
Anche qui possiamo isolare il motivo sopra ricordato del mortis iter , che con efficacissima sintesi esprime già nell’ incipit (vv. 1-2) e poi, in modo più elaborato, ai vv. 29-32, l’idea di una morte verso cui ci si avvia attraverso i propri stessi viaggi, e nella chiusa dell’elegia non manca il contrasto tra la vita di Peto e la collocazione spaziale dell’ io poetico, in assoluto la più topica tra quante si possano annoverare (vv. 71-72):
At tu, saeve Aquilo, numquam mea vela videbis:
ante fores dominae condar oportet iners.
Per cogliere appieno la portata delle simbologie spaziali legate al viaggio e al contrasto interno/esterno nella poesia properziana bisogna aggiungere un ultimo tassello di grande rilievo: l’ipotesi della fuga, dell’allontanamento, è iscritta nel romanzo erotico di Properzio sin dagli esordi, e, dopo averlo attraversato nei modi che abbiamo esaminati, ne marca infine la conclusione.
Ferte per extremas gentes et ferte per undas,
qua non ulla meum femina norit iter.
Vos remanete, quibus facili deus annuit aure,
sitis et in tuto semper amore pares.
Ecce coronatae portum tetigere carinae,
traiectae Syrtes, ancora iacta mihi est.
nunc demum vasto fessi resipiscimus aestu,
vulneraque ad sanum nunc coiere mea.
Nell’analisi proposta nelle pagine seguenti qualche elemento nuovo potrà forse scaturire da una più ampia riflessione su come l’affievolirsi delle tensioni di fondo dell’ideologia elegiaca investa ampiamente la rappresentazione dello spazio nell’elegia ovidiana. Il fuoco di tale analisi rimarrà invariato: la dialettica tra spazi interni, coincidenti principalmente con Roma stessa, e spazi esterni.
Come abbiamo visto nel capitolo precedente, l’universo spaziale properziano si organizzava come un tutto coerente, orbitante intorno all’Urbe. Quest’ultima rappresentava l’emblema spaziale della scelta biografica e poetica elegiaca, la sede esclusiva della domina e degli amori di coppia. La rappresentazione degli spazi esterni, inclusa ogni forma di allontanamento o di viaggio, ripeteva nel dualismo ‘interno vs. esterno’ la polarità di fondo dell’elegia latina: la scelta di vita esclusivamente interna, oppure irriducibilmente esterna, all’ ethos elegiaco.
Nei paragrafi seguenti vedremo nel dettaglio come il venir meno nell’elegia ovidana di tale tensione irrisolta, produca l’effetto di scompaginare la compattezza, e in certo senso la schematicità, dell’uso simbolico dello spazio ‘esterno’.
Già sul piano della contrapposizione tra lo spazio ‘interno’ della domus e quello costituito dai luoghi urbani della vita galante, un confronto diretto tra due elegie vicine per temi e spunti, quali la già discussa Prop. 2, 6 e Ov. Am. 3, 4, potrà offrire una chiara conferma – ed una esemplificazione sui testi – delle considerazioni fin qui esposte.
Forsitan inmundae Tatio regnante Sabinae
noluerint habiles pluribus esse viris;
nunc Mars externis animos exercet in armis,
at Venus Aeneae regnat in urbe sui.
Per compiere un passo in avanti nell’analisi delle strutture spaziali dell’elegia erotica ovidiana, sarà il caso di interrogarsi ora riguardo al trattamento subito dal tema del viaggio a partire dagli Amores , per passare poi all’ Ars amatoria , non senza una postilla riguardante i Remedia amoris .
Se in 2, 11 Ovidio aveva scelto di ripercorrere i modelli retorici o comunque topici del propemptikón , tenendosi sostanzialmente vicino ai più tradizionali atteggiamenti elegiaci nei confronti dello spazio ‘esterno’ della navigazione, nell’ altra elegia del viaggio all’interno degli Amores , ovvero 2, 16, il gusto della variazione e dell’incrocio tra spunti topici differenti porta ad una rielaborazione delle coordinate spaziali in relazione alla vicenda amorosa a dir poco sorprendente.
La situazione iniziale dell’elegia ci presenta Ovidio nella città natia, Sulmona, le cui laudes occupano la prima parte del componimento (Ov. Am. 2, 16, 1-10). Il distico rappresentato dai vv. 11-12 introduce ex abrupto in questo luminoso quadro campestre sia l’elemento erotico, sia quello che sarà d’ora in poi il tema dominante dell’elegia – la lontananza tra gli amanti:
At meus ignis abest. verbo peccavimus uno!
quae movet ardores est procul; ardor adest.
A tal fine Ovidio fa confluire nel testo una quantità impressionante di suggestioni intertestuali, provenienti non solo dall’elegia romana, ottenendo il risultato solo in apparenza paradossale di riscrivere dalle fondamenta, in modo ormai di fatto indipendente dai modi, o dovrei dire dalle ossessioni elegiache, le coordinate spaziali in cui la sua liaison amorosa si iscrive.
A questo punto dell’indagine, sarà forse più fruttuoso tornare ai motivi letterari e alla loro variazione e combinazione, partendo dalla suddivisione dell’elegia nelle quattro sezioni individuate dal Pöschl:
1.Assenza dell’amata. La florida Sulmona è una sede insopportabile, ma lo sarebbero anche le sedi degli dèi (vv. 1-16);
2.Presenza dell’amata. Dummodo cum domina, persino i viaggi più spaventosi sarebbero graditi al poeta (vv. 17-32);
3.Ancora assenza dell’amata. Senza di lei persino Sulmona somiglia ai luoghi più orridi;
4.Presenza (prefigurata) dell’amata. Sulmona diverrebbe il luogo del loro amore.
Eppure il termine di raffronto più interessante per la nostra elegia ci potrà venire da un testo che apparentemente offre un parallelo stringente con la situazione ovidiana: la decima ecloga di Virgilio, nella quale Gallo, poeta-amante elegiaco, si rifugia nello spazio non-urbano, addolorato per la lontananza dell’amata. Proprio le profonde differenze che separano Ovidio da quel modello ‘fondante’ per la concezione elegiaca dello spazio ne mostreranno la distanza dall’intera tradizione elegiaca che da quel paradigma, per molti versi, discendeva.
Inizieremo col dire che in 2, 16 il poeta-amante viaggia. Nulla di insolito, in ambito elegiaco, non fosse che per il fatto che sino ad Ovidio l’innamorato che ha intrapreso un viaggio, allontanandosi da Roma e dalla puella , è cosciente di avere così abbandonato lo spazio dell’ eros , pagandone lo scotto (vd. Tib. 1, 3 o Prop. 1, 17). Oppure ha deliberatamente abbandonato, con Roma, la propria scelta esistenziale (vd. Prop. 2, 31). Le cose non stanno così per il protagonista di 2, 16. In linea con le convenzioni del genere suona la topica invettiva pronunziata ai vv. 15-16 contro le longae viae ( iunctura questa che abbiamo imparato a riconoscere come marca ricorrente di una precisa ossessione elegiaca) e i loro costruttori:
Solliciti iaceant terraque premantur iniqua,
in longas orbem qui secuere vias!
Molto meno lo è la ‘conciliazione’ con esse proposta ai versi seguenti (vv. 17-18):
Aut iuvenum comites iussissent ire puellas,
si fuit in longas terra secanda vias!
L’amante ovidiano, già negli Amores , e in modo ancor più evidente nell’ Ars , se da una parte vive oramai la dimensione dell’ urbanitas senza più contraddizioni, dall’altra, non più soggetto alla schiavitù della desidia ed alla dimensione totalizzante dell’ eros , paradossalmente non avverte più il bisogno di ‘chiudere’ il proprio universo spaziale negli angusti confini dei moenia cittadini.
Pervigilant ambo; terra requiescit uterque –
ille fores dominae servat, at ille ducis.
militis officium longa est via; mitte puellam,
strenuus exempto fine sequetur amans.
ibit in adversos montes duplicataque nimbo
flumina, congestas exteret ille nives,
nec freta pressurus tumidos causabitur Euros
aptaque verrendis sidera quaeret aquis.
quis nisi vel miles vel amans et frigora noctis
et denso mixtas perferet imbre nives?
mittitur infestos alter speculator in hostes;
in rivale oculos alter, ut hoste, tenet.
ille graves urbes, hic durae limen amicae
obsidet; hic portas frangit, at ille fores.
Iam mea votiva puppis redimita corona
lenta tumescentes aequoris audit aquas.
Se non che, già in porto e con la poppa inghirlandata per il festoso ormeggio alle sponde della guarigione dall’amore, la nave di Ovidio subisce solo tre versi dopo un inatteso ‘dirottamento’ (vv. 33-38). L’amante ha cambiato idea, la bellezza della donna lo richiama dalla sua fuga (v. 37: nequitiam fugio – fugientem forma reducit ). La nave si diriga ora piuttosto, a vele spiegate, verso l’amore della donna (vv. 51-52):
Lintea dem potius ventisque ferentibus utar,
ut, quam, si nolim, cogar amare, velim.
Il naturale approdo della presente analisi è costituito dall’ Ars amatoria , laddove, come già anticipato, è possibile vedere la nuova retorica ovidiana degli spazi ‘esterni’ farsi una grammatica, divenire prescrittiva.
Dum licet, et loris passim potes ire solutis,
elige cui dicas ‘tu mihi sola places.’
haec tibi non tenues veniet delapsa per auras:
quaerenda est oculis apta puella tuis.
Siquis in hoc artem populo non novit amandi,
hoc legat et lecto carmine doctus amet.
arte citae veloque rates remoque moventur,
arte leves currus: arte regendus amor.
curribus Automedon lentisque erat aptus habenis,
Tiphys in Haemonia puppe magister erat:
me Venus artificem tenero praefecit Amori;
Tiphys et Automedon dicar Amoris ego.
Nei versi citati il didaskalos raccomanda al proprio discepolo di mostrare la propria sollecitudine verso l’amata mostrandosi pronto ad affrontare qualunque tipo di viaggio o di spostamento per raggiungerla o per accompagnarla. Ma da un’analisi più dettagliata del passaggio emerge come gli itinera prescritti da Ovidio rimandino direttamente ed esclusivamente – attraverso precise dinamiche intertestuali – alle non molte forme di mobilità di cui l’amante desidiosus aveva fatto esperienza nella produzione elegiaca precedente.
Iussus adesse foro, iussa maturius hora
fac semper venias, nec nisi serus abi.
occurras aliquo, tibi dixerit: omnia differ,
curre, nec inceptum turba moretur iter.
nocte domum repetens epulis perfuncta redibit,
tum quoque pro servo, si vocat illa, veni.
Rure erit, et dicet ‘venias’; Amor odit inertes;
si rota defuerit, tu pede carpe viam.
nec grave te tempus sitiensque Canicula tardet
nec via per iactas candida facta nives.
Segue immediatamente una formulazione (più sintetica rispetto a quella di Am. 1, 9) dell’idea ovidiana della militia amoris come simbolo provocatorio della compatibilità tra l’ ethos dell’amante elegiaco e quello quiritario del cittadino-soldato (vv. 233-238):
Militiae species amor est. discedite, segnes.
non sunt haec timidis signa tuenda viris;
nox et hiems longaeque viae saevique dolores
mollibus his castris et labor omnis inest;
saepe feres imbrem caelesti nube solutum
frigidus et nuda saepe iacebis humo.
Soffermandoci sull’ Ars amatoria , abbiamo individuato il compimento di un processo i cui prodromi avevamo individuato negli Amores : esaurita ormai la tensione ideale che scaturiva dalla retorica elegiaca dell’esclusione, il poeta-amante degli Amores si ritrova libero dai vincoli che lo tenevano imprigionato a categorie spaziali anch’esse ‘esclusive’, chiuse, statiche. Per il doctus amator dell’Ars, poi, divenuto pienamente protagonista della propria vita sentimentale, l’orizzonte spaziale ‘aperto’ del viaggio diviene non solo una possibilità, ma una prescrizione identitaria: l’amante, per essere tale, deve essere sempre disposto a muoversi. La conquista dello spazio esterno è il presupposto per garantire successo alla conquista della puella .
Se non che, nell’ulteriore ‘postilla’ che Ovidio ha voluto aggiungere alla propria produzione elegiaca in diretta continuità (ed opposizione) con l’ Ars amatoria , ovvero nei Remedia amoris , quella che abbiamo definito la nuova retorica ovidiana dello spazio elegiaco viene completamente messa da parte; l’intero processo di rielaborazione delle categorie spaziali elegiache, le cui forme anche complesse abbiamo seguito nelle pagine precedenti, ignorato – in favore di un vero e proprio ritorno alle più ‘ortodosse’ simbologie spaziali elegiache.
Ai vv. 135 ss. dei Remedia , come è noto, si sviluppa la trattazione dell’ otium desidiosum ( Rem. 149-150):
Desidiam puer ille sequi solet, odit agentes:
da vacuae menti, quo teneatur, opus.
In scoperta contrapposizione alla gnome esposta nel passaggio sopra discusso dell’ Ars amatoria sull’amante ‘dinamico’ ( Ars 2, 229: Amor odit inertes ), viene restaurata la polarità tra amore e desidia da una parte, bona mens ed attivismo dall’altra. La riattivazione, nella rappresentazione dell’amore elegiaco, della tensione antinomica di fondo propria della ‘retorica dell’esclusione’ ricostruisce l’intero sistema di opposizioni ideologiche ad essa collegato, e tramite questo la strutturazione polarizzata dello spazio. Il Foro, così ‘problematicamente’ recuperato all’ ethos elegiaco nell’ Ars amatoria torna luogo anti-elegiaco per eccellenza – ad esso spetta l’onore della prima menzione tra gli spazi che possono esorcizzare lo spettro dell’amore ( Rem. 151-152), seguito dallo spazio esterno delle campagne militari (vv. 153-154). La trasformazione di Egisto in adulter è stata dovuta all’impraticabilità di questi due spazi (vv. 163-168):
Pugnabant alii tardis apud Ilion armis:
transtulerat vires Graecia tota suas.
sive operam bellis vellet dare, nulla gerebat:
sive foro, vacuum litibus Argos erat.
quod potuit, ne nil illic ageretur, amavit.
sic venit ille puer, sic puer ille manet.
Il presente studio ha scelto come oggetto di indagine la costruzione simbolica dello spazio all’interno dell’elegia erotica augustea, ed in particolare il suo articolarsi intorno alle due tematiche fondamentali dello spazio urbano, connesso al motivo dell’ urbanitas inteso come ideale culturale e letterario, e del viaggio, motivo sviluppato in relazione alle sfere della guerra e della ricerca di lucro.
La scansione del lavoro è partita da un vaglio dei precedenti, greci e latini, della costruzione simbolica dello spazio nell’elegia augustea, condotto in un capitolo preliminare. In esso si è percorso dapprima, attraverso una carrellata di testi significativi della letteratura greca, l’evolversi dei rapporti tra ἄστυ e χώρα dalla realtà culturale della πόλις classica a quella della metropoli ellenistica, vero precedente dell’idea neoterica e poi elegiaca dell’ urbanitas considerata quale modello culturale. In una seconda sezione dello stesso capitolo introduttivo è stato affrontato il tema del dualismo città-campagna all’interno della cultura romana, affrontando il nodo delle contraddizioni tra l’ ‘acculturazione ellenistica’ della Roma repubblicana e l’arcaismo etico di stampo agrario proprio della mentalità quiritaria. Tra i ‘manifesti’ di quest’ultimo atteggiamento culturale, si sono analizzati testi come il proemio al De agri cultura di Catone, oltre che le prefazioni varroniane al secondo e al terzo libro del De re rustica , e passaggi-chiave del Cato maior ciceroniano. Anche tale sorta di ‘remora’ quiritaria nei confronti del mondo urbano, tale legame identitario con il rus , costituiscono infatti un presupposto fondamentale per comprendere molti aspetti controversi del trattamento elegiaco dello spazio.
Un secondo capitolo è stato dunque dedicato ad un precedente di assoluto rilievo della poetica elegiaca: il liber catulliano, in quanto anche dall’ottica delle simbologie spaziali tale raccolta precorre per molti versi il mondo elegiaco: nel panorama letterario latino è Catullo – o meglio l’intero milieu culturale neoterico – a compiere il passo definitivo nella direzione della ‘poetica dell’ urbanitas ’ . Alla luce delle considerazioni svolte in precedenza, appare evidente la matrice squisitamente ellenistica di una tale operazione culturale. La città, il suo sistema di valori, i suoi raffinati riti sociali, i suoi canoni estetici, costituiscono il prerequisito irrinunciabile per l’esperienza sia amorosa sia letteraria di Catullo. E i due piani tendono a confondersi e a rispecchiarsi. Com’è risaputo, l’identità elegiaca di vita, eros e poesia affonda, per così dire, le sue radici più immediate nella produzione neoterica. Lo studio riavvicinato dei carmina catulliani ci permette di affermare che anche l’incarnazione di tale nodo letterario con il mondo urbano vada annoverato tra i lasciti del poeta veronese alla posterità elegiaca.
Dallo spoglio dell’intero liber la poesia catulliana è risultata più ‘libera’ e varia nell’elaborazione delle simbologie spaziali rispetto alla produzione elegiaca, legata a schemi più rigidi. Ad esempio, il poeta di Verona impiega ampiamente i temi della rusticitas e della barbarie in chiave scoptica – ne fanno le spese personaggi memorabili come il rustico Mamurra e il celtibero Egnazio –, molto più di quanto non faranno gli elegiaci. Per contrasto potremmo citare Tibullo, nella cui silloge la funzionalizzazione comica del contrasto tra urbano e non urbano sarà limitata quasi soltanto ad elegie come Tib. 2, 3 (in cui l’amante cittadino immaginerà – con effetti di humour – di farsi duro contadino), mentre, come è noto, ha molto più spazio il motivo dell’idealizzazione della campagna. A quest’ultimo tema pagano il loro tributo, in modi diversi, anche Properzio (si pensi a Prop. 2, 19, che pure deve molto proprio a Tib. 2, 3; o a Prop. 3, 13, con la sua dichiarata nostalgia ‘catoniana’ per la purezza della campagna di un tempo) e l’Ovidio degli Amores (vd. 2, 17). Nel complesso, la parodia della rusticitas appare uno degli elementi rielaborati nella fucina catulliana, ma alla fin dei conti scarsamente recepiti in àmbito elegiaco.
A conclusioni analoghe siamo giunti a proposito del tema del viaggio nel liber catulliano: la raffigurazione del mondo delle campagne militari in carmi come Cat. 10; 28; 29 oscilla tra un realismo crudo ed alquanto cinico, e residui di fascinazione per le ricchezze esotiche –soggetti che saranno di fatto quasi accantonati all’interno della rigida selezione elegiaca di temi e spunti poetici anteriori. Anche l’atteggiamento di Catullo nei confronti del proprio viaggio in e dalla Bitinia in testi come Cat. 46 (la partenza); 31 (il ritorno a Sirmione); 4 (il phaselos ) non risponde al dogma elegiaco del rifiuto del viaggio in relazione all’ ethos amoroso. Forse il precedente più diretto di quest’ultimo è riscontrabile in un carme come Cat. 45. Ma nel complesso siamo obbligati a concludere che il tema del rifiuto del viaggio non conosce ancora in Catullo quella sorta di ‘normatività’ fissata nella poesia elegiaca augustea, soprattutto se prendiamo in considerazione il gusto, condiviso all’interno del raffinato ‘circolo’ neoterico, per manufatti e luxury goods di provenienza esotica.
Il terzo capitolo del lavoro è stato dedicato al corpus tibulliano. Al suo interno una disamina delle singole elegie ha permesso in primo luogo di riesaminare la natura dei notissimi passaggi ‘idillici’ all’interno della poesia di Tibullo. Se infatti si considera il posizionamento dell’ io poetico, lo spazio in cui questo colloca se stesso nel momento in cui genera l’‘altro’ mondo, quello dell’evasione in un rus idealizzato, è possibile verificare come la persona poetica guardi sempre dall’esterno agli universi idillici che crea. Un’analisi dettagliata dei testi, non escluse le elegie considerate paradigmatiche della poesia ‘rustica’ di Tibullo, come Tib. 1, 1, ci ha mostrato come l’ io di Tibullo tenda invece ad identificarsi con piani di realtà coincidenti o con la realtà urbana – che costituisce anche qui lo spazio dell’amore ‘elegiaco’ (vd. Tib. 1, 1, 55-56: Me retinent vinctum formosae vincla puellae, / et sedeo duras ianitor ante fores ) – , o con la dura realtà del viaggio (Tib. 1, 1, 26: Nec semper longae deditus esse viae ). Riassumendo si potrebbe concludere che da un lato, nel Tibullo dei cicli di Nemesi e di Marato, è evidente il predominio del fondale e del clima culturale urbani; dall’altra, nelle elegie in cui l’autore elabora il tema della campagna idealizzata, i punti di osservazione da cui l’ io poetico contempla le sue rêveries campestri sono sostanzialmente la città e la realtà delle campagne militari. In questo schema ‘tripartito’, la città si identifica con l’amore elegiaco, non esclusi i suoi aspetti dolorosi ed ingiusti; la longa via della guerra rappresenta la negazione dell’ eros elegiaco; e in diretta contrapposizione a tali dimensioni spaziali, coincidenti con il ‘piano di realtà’ dell’ io poetico, viene generato un ‘anti-spazio’ rurale, nella direzione di una ‘fuga verso l’interno’ in cui possano comporsi anche gli aspetti tormentosi dell’amore elegiaco. Nel paragrafo conclusivo è stata infine vagliata l’ipotesi di una diretta derivazione galliano-virgiliana (ci riferiamo naturalmente alla decima ecloga) di una tale costruzione simbolica dello spazio.
Nel capitolo successivo è stato indagato lo sviluppo dei temi portanti della nostra analisi nella produzione properziana. In primo luogo è stato affrontato un tema trattato dalla critica solo incidentalmente, e con soluzioni contrastanti: l’atteggiamento di Properzio nei confronti della realtà urbana. Ne è emerso un quadro certi versi inaspettato, in cui, mentre la città costituisce naturalmente lo scenario esclusivo della vicenda amorosa (come vedremo meglio tra breve), l’emergere della toponomastica effettiva di Roma paiono legati d’altra parte all’incubo del tradimento, della dissoluzione della fides degli amanti. La dimensione monumentale dell’Urbe, poi, non sembra coinvolgere più di tanto il poeta, o almeno non sembra investirlo direttamente il discorso ideologico-politico sotteso al nuovo assetto urbanistico-architettonico impresso dal princeps all’Urbe. L’asse intorno al quale sembra costruirsi il mondo spaziale di Properzio, almeno nelle elegie erotiche della sua raccolta, sembra piuttosto vertere su di una contrapposizione tra lo spazio ‘interno’ della domus , indicata ossessivamente attraverso la metonimia del limen (e suoi sinonimi), da una parte, ed ogni sorta di spazi ‘esterni’, a partire dai già citati luoghi della vita ‘galante’ della metropoli.
Tale considerazione ci porta nel vivo della seconda sezione del capitolo, riservata a quella che può considerarsi una vera e propria ossessione del poeta umbro: lo spazio esterno, in particolare ogni orizzonte che varchi le mura della città di Roma.
Per quanto riguarda gli Amores , il processo di ‘campionatura’ di motivi, situazioni ed ogni sorta di τόποι elegiaci che Ovidio sembra compiere al loro interno produce un effetto di disorientamento per uno studio che miri ad essere ‘sintentico’, ovvero ad individuare costanti e schemi generali all’interno della costruzione elegiaca dello spazio. Il poeta si cimenta nei vari ‘sotto-generi’ elegiaci, e quindi anche nella rappresentazione degli spazi topici del genere: il contesto simposiale (Ov. 1, 4; 2, 5; 3, 11); il locus amoenus (3, 1; 3, 5; 3, 8); il παρακλαυσίθυρον , naturalmente (in innumerevoli passi che non mette conto qui riportare); il sito di Roma prima della fondazione (1, 8; 1, 10; 2, 9; 3, 4); il proprio luogo d’origine ( τόπος properziano sviluppato da Ov. Am. 2, 1; 2, 17; 3, 15); i Campi Elisi (motivo invece tibulliano ripreso da Ov. Am. 2, 6; 3, 9).
Ma nel giovane Ovidio degli Amores , oltre all’arte della variazione e al gusto della variante peregrina e arguta, si potrà scorgere una retorica dello spazio a suo modo coerente, solo apparentemente in continuità con la tradizione elegiaca. Anche qui l’impostazione dell’analisi si è fondata sui Realien topografici di Roma e sugli spazi della lontananza, chiavi di volta dell’intera concezione properziana dello spazio stesso.
La retorica spaziale elegiaca, nel suo complesso, si configurava come essenzialmente chiusa e statica. Salvo parziali eccezioni quali Prop. 2, 26b, su cui ci siamo soffermati a suo luogo, l’amante elegiaco, semplicemente, non viaggia. Gli spostamenti cui è costretto per raggiungere la sua amata sono molto limitati: si tratterà tutt’al più di raggiungerla, come in Tib, 2, 3, Prop. 2, 19 o 3, 16, nel rus suburbano. Ma anche questi spostamenti venivano per lo più presentati come degradanti e dolorosi (Tib. 2, 3), pericolosi e potenzialmente mortali (Prop. 3, 16) o almeno comunque sgraditi al poeta (Prop. 2, 19). Sulla scia dell’elegia 3, 16 di Properzio (la ‘convocazione’ in campagna da parte della donna) sembra collocarsi Ov. Am. 3, 6 – tuttavia è sparito il clima cupo (per quanto ironicamente esagerato) e quasi ferale che accompagnava questo breve spostamento nei versi properziani, trasformandolo in una sorta di piccola discesa agli inferi. In Ov. Am. 3, 6 quanto rimane è l’idea di ‘dinamicità’ dell’innamorato destinata a riapparire anche, sotto forma d’inversione di ruoli, in Am. 2, 16, dove è il poeta a trovarsi a Sulmona, e ad invitare Corinna a raggiungerlo – dandogli così prova del proprio amore. La versione ovidiana dell’amore elegiaco, ormai del tutto estranea alla staticità elegiaca, trova la sua espressione più completa nella raccolta degli Amores nell’elegia incentrata sul motivo della militia amoris ( Am. 1, 9), nella quale l’etica dell’innamorato trova evidenti punti di contatto con quella militare, nella chiave di una sorta di attivismo anche ‘motorio’, in un’elegia in cui proprio le simbologie spaziali legate al viaggio e al movimento rivestono un ruolo di primo piano. La più piena espressione di questa nuova retorica ‘dinamica’ dello spazio è rintracciabile nell’ Ars amatoria , oltre che in una serie di precetti riconducibili all’appropriazione dello spazio urbano e alla propensione ‘motoria’ di cui abbiamo detto, in un passaggio di notevole importanza, Ars 2, 223-250, dove un’ampia rassegna di τόποι elegiaci è utilizzata come esempio paradossale della nuova etica erotica dell’amante ovidiano.
La nostra rassegna conosce però una conclusione ‘dissonante’: nel poema che costituisce la voluta antitesi dell’ Ars amatoria , i Remedia amoris , un’intera sezione (vv. 135-248) è infatti fondata sulla riproposizione dei principali elementi della della retorica ‘esclusiva’ dello spazio propria dell’elegia latina. Con il poema che segna il commiato definitivo della letteratura augustea dal’esperienza letteraria elegiaca, il processo sembra tornare circolarmente al punto di partenza – ma oramai l’assolutezza delle categorie spaziali elegiache era stata negata, e così la ragion d’essere di un genere che fondava sulla visione totalizzante dell’ eros la propria stessa identità.
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Zinn E. , Worte zum Gedächtnis Ovids , in Ovid (a cura di M. von Albrecht-E. Zinn ), Darmstadt 1968, 3-39.
1Cfr. Dupont 20022, 86-87.
2Sulla letteratura ellenistica ed un’analisi dei suoi principali esponenti in rapporto agli ambienti culturali di appartenenza, vd. la monografia di Webster 1964, passim.
3Vd. Musiolek 1981, 372.
4Cfr. Reinhardt 1988, 1-3;Musiolek 1981 su ἇστυ; Koerner 1981 su πόλις.
5 Vd. Musiolek 1981, 368 .
6 Cfr. Reinhardt 1988, 17-18 : “Il carattere dell’ἇγρο ικoς ἇγρ οικoς ” mostra una volta di più quanto fluidi fossero i confini tra città e campagna nell’Atene classica. Si poteva vivere in campagna come colto possidente terriero, oppure si poteva prendere parte, da incolto contadino, agli affari quotidiani della politica ed alla vita della πόλις ”.
7 Vd. Reinhardt 1988, 1 : “Gli ambiti della città e della campagna non sono tematizzati e contrapposti per la prima volta nell’opera di Teocrito. A causa del grande significato economico dell’agricoltura per la cultura cittadina greca, le figure dei cittadini e dei contadini hanno un loro posto ben determinato nella letteratura greca sin dall’epica arcaica”.
8 Ad essi paghiamo, naturalmente, il nostro debito bibliografico: si vedano dunque Ribbeck 1885 , studio documentatissimo, con incursioni anche nella letteratura latina, sulla fortuna dei due ‘tipi’ dell’ ἄγροικoς (pp. 3-45) e del suo contrario, l’ἀστεῖο ς / urban us (46-66), indagine ‘ispirata’ in qualche modo dal quarto carattere teofrasteo (ovviamente, l’ ἄγροικoς ), riportato infatti alla fine del volumetto; e Vischer 1965 , incentrato sul motivo della ‘semplicità’ di vita ( Einfachheit ) tanto nella letteratura greca quanto in quella latina. Per quanto riguarda quest’ultimo lavoro, naturalmente l’idea (non solo antica) di una vita meno complicata di quella moderna non si incarna solo in un sogno di evasione bucolica, ma, ad esempio, in temi ben noti quali la nostalgia per un’età perduta, lontana nel tempo, o il vagheggiamento di luoghi lontani e fantastici, come anche in una certa visione stereotipa della stessa vita dei barbari. La “Bukolische Einfachheit”, a partire dall’età alessandrina, è presa in esame in particolare in Vischer 1965, 128-147, ma indicazioni interessanti vengono anche dalla rassegna precedente degli autori greci arcaici e classici, come anche dai capitoli successivi (pp. 147-157), che seguono il cammino del tema della ‘vita semplice’ nella letteratura latina (includendo Orazio e il Virgilio georgico).
9 Vd. Hom. Il. 18, 491-589.
10 Cfr. Reinhardt 1988, 4-5 .
11 Vd. Theogn. 1, 54-58.
12 Cfr. Ribbeck 1885, 28 e Reinhardt 1988, 9 : “È difficile precisare quale fosse la posizione di Euripide, a partire da tali passi”. Più recisamente Vischer 1965, 58 afferma: “La città non è più colei che alleva la gente per bene: il bene risiede ormai solo nella campagna”.
13 Cfr. Ribbeck 1885, 7 .
14 Vd. Ribbeck 1885, 9 : “Nelle commedie conservate non è mai sua intenzione rappresentare questa classe sociale [ scil. i contadini] come ridicola, o cogliendo le sue debolezze: anzi, i campagnoli (con l’eccezione degli spassosi Acarnesi) sono i suoi compagni nell’aspirazione alla pace ”. Posizioni analogamente sbilanciate nella direzione della συμπάθ εια di Ar istofane con i suoi personaggi agresti, quali quella di Vischer 1965, 58-59 o di Ehrenberg 1957, 103-133 , sono riequilibrate da Reinhardt 1988, 11 , il quale richiama l’attenzione sulla rappresentazione, da parte del commediografo attico, anche dei limiti del mondo contadino, della sua grettezza, delle sue durezze di vita.
15 Cfr. Reinhardt 1988, 12-14 , il quale insiste sulla presenza in Menandro di un quadro non ancora del tutto idealizzato del Landleben : accanto all’ammirazione morale, sopravvivono ancora, nella figura del contadino, “Züge des Unkultivierten” (‘tratti di rozzezza’; p. 23). Già Ribbeck 1885, 27-28 aveva retrodatato al teatro greco del quinto secolo i primi segni del processo per cui “La considerazione delle debolezze morali, che l’avanzamento della cultura cittadina comportava come conseguenza, porta gli animi più riflessivi a tornare ad estimare la forza della campagna e la sua semplicità”, citando l’ Antiope , l’ Oreste e l’ Elettra di Euripide . Delle conclusioni di Vischer 1965 su Euripide (a 56-58) abbiamo già detto; si vedano anche le sue considerazioni su Menandro e gli altri autori dellα νέανέα a 131: a suo parere è proprio dalla commedia che viene agli epigrammatisti alessandrini e a Teocrito il tema dei pastori come elemento fondamentale nell’elaborazione poetica (e non filosofica) della Einfachheit . L’analisi di Reinhardt 1988 (a 14-17) , per parte sua, passa in rassegna anche l’ Economico di Senofonte e il Carattere quarto di Teofrasto. Interessanti le sue notazioni riguardo alla prima delle due opere, laddove egli ridimensiona l’enfasi impressa da Vischer 1965, 59 alla lode della vita di campagna: nell’ Economico i campi sono sostanzialmente una fonte di introito, e non è messa in campo alcuna scelta esistenziale tra mondo urbano e rurale. La natura ideologicamente ‘ambigua’ dei trattati didascalici di argomento agricolo è dovuta al fatto – che ritroveremo anche parlando del De re rustica di Varrone – che non si tratta affatto di ‘manuali’ per contadini, ma opere letterarie destinate ad un pubblico di ricchi possidenti terrieri, con forti interessi economici nella campagna, ma i piedi ben piantati nella agiata e raffinata vita cittadina. Il parallelo tra le rappresentazioni della campagna in Aristofane e in Menandro portato avanti in Del Corno 1969, 85-94 porta lo studioso a conclusioni molto interessanti sul poeta della νέα come interprete della crisi di Atene nel IV sec. a.C., un Menandro che gioca ‘di sponda’, usando i personaggi rustici per denunciare i mali (morali e politici) della città.
16 Vd. Reinhardt 1988, 17-18 . Per la precisione, la definizione dello studioso è riferita all’atteggiamento della letteratura arcaica, ma ci permettiamo di usare il suo termine per descrivere un approccio di fondo che individuiamo un po’ in tutti i testi e gli autori presi sinora in esame.
17 Vd. Fantuzzi-Hunter 2002, 177 e 245 n. 4 .
18 Cfr. Fantuzzi-Hunter 2002, 178 e 246 n. 7 .
19 Cfr. Del Corno 1969, 85 , ripreso in Fantuzzi-Hunter 2002, 246 n. 7 .
20 Un momento di grande suggestione critica rimane sempre il bilancio tracciato da Pasquali 1920, 385-390 , attraverso il grande affresco d’insieme traciato sulla vita quotidiana ad Alessandria. Più in generale, costituisce una fonte di riflessione il parallelo tra le due grandi metropoli del mondo antico, l’Alessandria dei Tolomei e la Roma tardo-repubblicana ed imperiale, sviluppato a 364-390 .
21Vd. Cairns 1972, 17-18: “Un’altra area tematica importante nella poesia ellenistica è la campagna [...]. Ma di fatto l’interesse ellenistico per i campi sembra essere stato sostanzialmente erudito, ovvero riflette la curiosità intellettuale del poeta ellenistico su tutto ciò che si pone al di fuori della sua esperienza quotidiana. Per l’uomo di città di età ellenistica la campagna non era più familiare come una parte quotidiana della vita. Si trattava di un altro mondo, da comprendere come tale”, e già Ribbeck 1885, 28-29: “Ma nel periodo ellenistico si sviluppa, insieme alla nostalgia nei confronti della semplicità e della gioia della natura campestre, la concezione idealizzante, sentimentalmente ispirata della vita nei campi e dei contadini [...]. Con la creazione di giardini e parchi nelle città viene introdotto il gusto per il campagnolo nella pittura e nella scultura, insieme ad un crescente amore per la natura pittoresca”.
22 Per il concetto di ‘stilizzazione’ cui fa riferimento Fantuzzi, si legga anche quanto detto da Stanzel 1995, 115-118 .
23 Vd. ancora Fantuzzi-Hunter 2002, 216-222, e, per Mosco e Bione, 223-245 . Per misurare questa distanza, all’interno del corpus teocriteo, tra i componimenti ascrivibili a Teocrito stesso e quelli dei suoi emulatori, Serrao 1977 (b), 180-199 ha esaminato da presso un elemento preciso: il rapporto tra gli agoni poetici tra βουκολιάσταιv nei componimenti del corpus e le reali convenzioni delle gare d’improvvisazione di versi nella tradizione popolare greca – per quanto ci è dato di ricostruire quest’ultima. Lo studioso individua dunque una netta differenza tra un carme come il quinto idillio, effettivamente teocriteo, il quale si attiene alle regole di tali gare tanto nella sua strutturazione interna quanto in alcuni dettagli come la posta in gioco, la scelta del giudice ed altri, e carmi come l’idillio ottavo, opera di un imitatore, già molto più ‘libero’ da tali vincoli di imitazione della realtà campestre. Toni particolarmente realistici presenta, com’è noto, l’idillio 10 di Teocrito, per cui Webster 1964, 83 afferma recisamente: “Solo l’ idillio X è un quadro coerente della vita campestre contemporanea”. Eppure egli stesso, subito dopo, ammette un certo grado di letterarietà nella costruzione: “anche qui il contrasto tra i due probabilmente deve qualcosa alla commedia nuova”. A questo riguardo, una luce nuova sul carme ha gettato a suo tempo la lettura di Cairns 1970, 38-44 , il quale vedeva Buceo e Milone come due campagnoli che si comportano da cittadini, in quanto il loro contrasto è costruito su elementi topici di origine ‘urbana’, tratti anche dalla poesia simposiale: essi incarnerebbero infatti le figure dell’amante e dell’ irrisor amoris . Dal contrasto tra la tradizione letteraria che essi in fondo continuano, e il travestimento campestre cui sono sottoposti, nasce per Cairns il principale effetto parodico e l’efficacia del componimento. Si veda anche l’equilibrata lettura di Theocr. 10 condotta da Reinhardt 1988, 43-49 .
24 Cfr. Fantuzzi-Hunter 2002, 185-186 .
25 Vd. ancora Fantuzzi-Hunter 2002, 245 n. 4 , che a sua volta rinvia Del Corno, 1969, 85 .
26 Tra i precedenti di Teocrito nell’attenzione alla realtà dei campi, Fantuzzi-Hunter 2002, 177-178 colloca il mimo siciliano, Epicarmo, e per la realtà urbana Sofrone (di cui discuteremo più avanti). La frammentarietà di queste testimonianze ci impedisce in realtà di giungere ad alcuna reale conclusione sui loro rapporti con la successiva poesia degli Idilli . Sicuramente, ad una certa prudenza invitano le stesse considerazioni di Fantuzzi riportate sopra sulla differenza tra l’attitudine realistico-parodica del mimo e la complessa operazione letteraria teocritea. Vischer 1965, 129-132 individua nella linea commedia νέα-epigrammisti ellenistici (soprattutto i ‘peloponnesiaci’) i precedenti più diretti di Teocrito per quanto riguarda l’interesse verso la realtà dei campi e la loro trasfigurazione poetica. Se un’epigrammatista come Anite di Tegea presenta un certo gusto, peraltro non predominante, per scorci idillico-bucolici, l’interesse di un Leonida di Taranto è legato più che altro ad una rappresentazione realistica della vita delle classi umili, indipendentemente dalla collocazione spaziale: un riflesso del ‘realismo’ alessandrino, ben lontano delle rarefatte atmosfere teocritee. Si vedano al riguardo Degani 1977, 271-279 (soprattutto a 278-279 ); Fantuzzi-Hunter 2002, 246 n. 7 , e lo stesso Vischer 1965, 138-139 , il quale evidenzia la “harte Einfachheit” rappresentata in un certo numero di epigrammi leonidei: una semplicità di vita realizzata attraverso un singolare connubio di “povertà, lavoro e contentezza”. Sempre Vischer, a 132-135 , traccia un preciso confine tra atmosfere bucoliche e Einfachheit : se la sintesi tra quest’ultima condizione di semplicità e beatitudine e un sereno quadro campestre si realizza perfettamente nelle Talisie , a suo parere spesso negli altri epigrammi gli elementi realistici, crudi, e più ancora il πάθος amoroso che si inserisce nel contesto bucolico impediscono in molti casi di parlare di realizzazioni dell’ideale di Einfachheit . Sui mimi rustici teocritei in generale un punto di riferimento resta ovviamente Reinhardt 1988, 26-49 , soprattutto incentrato su Theocr. 4; 5 e 10.
27 Come, per parte propria, nota Webster 1964, 89 .
28 Vd. Theocr. 2, 76: ἤδη δ ᾽ εὖσα μέσον κατ᾽ ἀμαξιτόν, ᾇ τὰ Λύκωνος.
29 Ben nota è, per i due componimenti, la questione della dipendenza di Teocrito da Sofrone, esplicitamente dichiarata dagli scolî (vd. gli argumenta a Theocr. 2 e 15 negli Scholia vetera pubblicati da Wendel 1914 ). Una discussione puntuale sul rapporto tra le Pharmakeutriai e Sofrone è in Reinhardt, 1988, 91-94 . Sia questi sia Webster 1964, 88-89 tendono però a rivendicare l’autonomia teocritea dal punto di vista dell’elaborazione artistica della materia. A riguardo vd. anche Fantuzzi-Hunter 2002, 245 n. 5 e 249 n. 33 . Anche Reinhardt 1988, 65-115 riconosce a Teocrito, soprattutto con l’idillio 10 ( vd. 99-107 ), il merito della ‘scoperta’ poetica della città (per avvalerci del titolo dell’esemplare capitolo di La Penna 1977, 176-191 ) in età ellenistica.
30 Così Fantuzzi-Hunter 2002, 186 .
31 Giustamente Webster 1964, 42 richiama l’attenzione sul fr. 10 Powell di Filita, in cui il poeta colto rivendica la sua superiorità rispetto al rozzo contadino (in questioni amorose?). Filita rappresenta infatti, per le prime generazioni di poeti ellenistici almeno fino a Teocrito un caposcuola, il fondatore riconosciuto di un modo di fare poesia e cultura (vd. anche Wilamowitz-Moellendorf 1962 2 , 115 e Cazzaniga 1962, 238 per una interpretazione in chiave poetologica del frammento.
32 Per il concetto di una ‘scissione’ tra la cultura ‘alta’ e quella delle classi subalterne, scissione da cui scaturisce il senso ultimo della polemica letteraria callimachea, vd. Serrao 1977 (a), 172 , e la discussione di Mastromarco 1979, 118-123 , con ulteriori rinvii bibliografici.
33 Sui caratteri del mimiambo di Eronda, sul suo equilibrio tra rappresentazione realistica ed elaborazione letteraria (non coincidente con quello Teocriteo, nemmeno dei suoi epilli urbani), fondamentale resta lo studio di Mastromarco 1979, in particolare il capitolo terzo, I mimiambi: poesia dotta e teatro di élite (a 107-142) .
34 Vd. Cairns 1970, 1970, 38-44 su Theocr. 10; Cairns 1972, 144-147; 172-173; 194-195 e 202-204 , e ancora Gow 1952 2 , 64 e l’intero capitolo Die gruppe der auf die Stadt verweisenden merae rusticae in Reinhardt 1988, 50-84 .
35 Vd. Fantuzzi-Hunter 2002, 179 e la bibliografia riportata a 249 n. 9.
36 Dal canto suo, Cairns 1972 17-18 individua un altro aspetto del complesso nodo che lega la nuova realtà dell’urbanesimo ellenistico alle nuove forme letterarie di rappresentazione dello spazio (sia quello rurale sia quello urbano ‘basso’, quotidiano), leggendo tali rappresentazioni come un aspetto della natura ‘colta’ ( learned ) della letteratura alessandrina (vd. supra , n. 21).
37 Pensiamo ovviamente all’effetto ‘erosivo’ che ebbe la cultura politica ellenistica, radicata nella realtà dei grandi regni territoriali e della monarchia carismatica, su quella tradizionale romana, basata su un’oligarchia legata ai suoi valori di ‘egalitarismo aristocratico’.
38 Nell’àmbito letterario, tale ideologia trova espressione, come naturale, nei trattati di agronomia, ma, come vedremo, non solo in questi. Si può rinviare dunque in primo luogo alla monografia ormai classica di Martin 1971 sugli agronomi romani, ma anche alla serie di studi compiuto da Alberto Cossarini su Catone ( Cossarini 1976-1977 [a], 71-86 ), Varrone ( Id. 1976-1977 [b], 177-197 ), Sallustio e Cicerone ( Id. 1979-1980, 355-364 ), Columella ( Id. 1978, 35-47 ), Plinio il Vecchio ( Id. 1980, 143-163 ) e Palladio ( Id. 1977-1978, 175-185 ). In tali lavori l’‘ideologia’ agraria, che ha tra i suoi cardini il coinvolgimento diretto del dominus nella gestione della proprietà terriera, oltre a precisi valori etici e politici, viene messa a confronto con le effettive condizioni storico-ecomiche del sistema schiavistico di produzione agricola, e con la sua progressiva crisi.
39 Certo è arduo, per chiunque sia entrato in contatto con il meccanismo delle fonti da cui traiamo le nostre conoscenze sull’antichità (e non solo su di essa), tracciare una linea distintiva tra l’‘uomo’ effettivamente esistito e il ‘personaggio’ tramandato dai testi successivi. Considerando che molto di quanto sappiamo di Catone, a parte quanto possiamo trarre dai suoi stessi scritti, ci è stato presentato da un testo letterario, magari storiografico, la domanda è: si poteva parlare di Catone il Censore, nella Roma della Repubblica e della sua crisi, ma anche dopo, come se i significati ideologici attribuiti alla sua figura non fossero mai esistiti? E soprattutto, che ragione avrebbero avuto per far questo (intendiamo, per parlare di M. Porcio Catone dimenticando ‘Catone’), una storiografia, una aneddotica ed una letteratura prosopografica come quelle antiche, le cui premesse letterarie di fondo consistevano nell’ uso dei personaggi e degli episodi per veicolare contenuti morali, o almeno per portare avanti discorsi di senso più ampio rispetto alla narrazione ‘oggettiva’ del singolo episodio? Da questo angolo-visuale, il ‘mito’ di Catone e i significati che esso veicola ci interessano almeno tanto quanto la sua effettiva esistenza storica. Fatto salvo, naturalmente, l’interesse specifico degli scritti che la tradizione antica è concorde nell’attribuirgli, almeno quando questi stessi scritti non siano germogliati successivamente, come ad esempio i Dicta Catonis , lungo i secoli di vita del ‘mito di Catone’ (per cui si veda Goar 1987 ).
40 A dire il vero, va anche ricordato che ex agricolis nasce anche uno strano quaestus , che non è solo stabilissimus , ma persino maxime pius... minimeque invidiosus . Dietro questo denaro ‘molto pio’, intravvediamo ancora una volta, ovviamente, gli stessi contadini, i quali subito dopo, tramite l’anafora dell’avverbio minime , si riprendono anche sintatticamente il ruolo di referenti del discorso. Di uomini si parla, anzi, di soldati: o meglio, di uomini con le loro virtù e di rendite agricole, insieme. Si noti, tra l’altro, come la stretta congiunzione tra gli attributi è evidenziata con forza dall’uso ripetuto dell’enclitica -que . Il testo impiega ogni cura, ed ogni artificio retorico, al fine di tenere uniti l’aspetto materiale e quello morale dell’argomentazione. Lo studio di Ruebel 1980, 19-20, tendente a mostrare come l’espressione nunc ad rem redeam faccia riferimento alla res intesa soprattutto come ‘patrimonio’, testimonia peraltro come gli aspetti puramente economici restino comunque al centro dell’interesse catoniano nell’opera, per quanto non disgiunti da quelli morali e politici.
41 In direzione di un possibile influsso della diatriba greca sull’anti-ellenico Catone argomenta Oltramare 1926, 81-88 , il quale, pur dichiarando preliminarmente di non interessarsi al De agri cultura in quanto il trattato tecnico esula dall’ambito della sua rassegna, a 85 accenna alla consonanza dei riferimenti catoniani alle virtù della campagna con la frugalità diatribica (per cui vd. sempre Oltramare 1926, 49-52 ). Va peraltro notato come lo studioso si mostri anch’egli consapevole ( a 87 ) delle problematiche poste dalla sovrapposizione, nella figura di Catone, di uomo e personaggio, con quanto ne consegue anche per la tradizione testuale (si pensi ai detti tramandati per tradizione indiretta) : “Forse la posterità gli ha imprestato un numero maggiore di sentenze conformi alla filosofia popolare di quante egli ne abbia realmente scritte o pronunciate”. D’altra parte Oltramare teme che i posteri ci abbiano restituito un Catone più diatribico (e quindi, in fondo, più ellenizzante) di quanto non fosse realmente.
42 Su questo passaggio iniziale vd. anche la breve nota di Scivoletto 1992 (a), 744-747 , per cui “questo breve discorso introduttivo [...] è un valido documento di quella dialettica, sempre presente nella cultura latina, tra l’ideologia della campagna e quella della città, e strutturato secondo i canoni del genere epidittico” (p. 745). Lo studioso nega al brano la qualifica di vera e propria prefazione programmatica, mancandole “l’intenzione dello scrittore di procedere alla sistematizzazione teoretica delle proprie e delle altrui esperienze” (p. 746). Notevoli correzioni al testo del brano apporta Gratwick 2002, 41-72: particolarmente interessanti le sue proposte di lettura ed interpretazione per l’ incipit ( est interdum praestare <rem> mercaturis rem quaerere , “It can sometimes be that to provide <substance> to those proposing to venture is to win substance”) e per la formula finale di transizione ( nunc ut ad rem redeam, quo<a>d promsi institutum, principium hoc erit, <rem re quaerere> , “Now to return to substance, as far as I have selected among livelihoods, the main thing will be this, <to win substance from substance>”). Per parte nostra, troviamo il primo dei due interventi testuali, seppure non certo, comunque più probabile del secondo. Lo studioso corregge anche il finale del breve proemio per dare una conclusione ‘logica’ ad un’argomentazione che vede principalmente basata sul tema del rem quaerere , ovvero sul piano economico. Eppure la necessità di questa correzione non mi pare stringente, considerando che il fulcro dell’argomentazione catoniana è costituito soprattutto dalla connessione tra aspetti morali ed economici: essa muove dall’analisi di forme di guadagno prive di valore morale verso la ‘dimostrazione’ del primato dell’agricoltura, transizione marcata da at .
43 Varr. De re rustica 2 praef. 1-3.
44 Direttamente raffrontabile con la prefazione catoniana ci pare anche l’idea che la vita in campagna generi i suoi benefici effetti già per il solo fatto di tenere impegnati in aliquo opere faciendo (Catone aveva qui in eo studio occupati sunt ) i suoi abitatori, che invece – Varrone lo dice più esplicitamente – altrimenti resterebbero desidiosi .
45 L’esplicito confronto operato dal testo testimonia già da sé il rapporto intertestuale fra i due stralci. Andrà sottolinato come la caratterizzazione della vita di città passi anche attraverso l’attenta scelta dei verbi: sedere , col suo portato di staticità ed oziosità (contrapposto a rura colere ); usurpare , “prendre possession par usage [...], s’approprier [...], faire usage de, employer” ( Ernout-Meillet 2001 4 , 758 s.v. usurpo ), il quale, contrapposto anch’esso a rura colere , restituisce l’idea di una campagna come luogo produttore di ricchezza, e di una città dove quella ricchezza di distribuisce, ovvero si disperde; ma soprattutto il caustico correpo “se traîner, cheminer lentement, se glisser” ( Ernout-Meillet 2001 4 , 570 s.v. repo ) che evoca, in stridente contrasto con la solenne evocazione della figura del pater familiae , un allontanarsi alla chetichella, clandestinamente, venendo meno ai propri doveri ( relictis falce et aratro ). La climax polemica culmina nell’immagine, sottilmente straniata, dell’inane agitarsi ( movere ) delle mani negli spettacoli.
46 Vd. al riguardo Bianco 1976, 299-316 , che dopo una circostanziata analisi storico-economica conclude contestando l’idea comune di una crisi agricola profonda al tempo di Varrone.
47 Sotto questo aspetto, una considerazione che noi classificheremmo come di ordine ‘pratico’, come quella della salute più cagionevole dei cittadini in Varr. De re rustica 2 praef. 2 diviene più comprensibile, all’interno di una logica per cui sanità fisica e integrità morale sono concepite in un rapporto speculare. Di “discorso epidittico” parla Scivoletto 1992 (a), 737-738, evidenziando la struttura dell’argomentazione costituita da laudatio (per gli antenati) e vituperatio (per i loro corrotti discendenti).
48 In riferimento alle diverse opinioni al riguardo di Talete, Zenone, Pitagora, Aristotele, Dicearco, viene disegnata una linea evolutiva che dalla comparsa della vita sulla terra porta allo stadio in cui gli uomini primitivi si nutrivano dei frutti spontanei della terra, quindi all’allevamento delle docili pecore, e infine all’agricoltura. Sugli interessi di Varrone in relazione alla cosmogonia e all’antropogonia, vd. Noè 1977, 297-298 .
49 Al riguardo Noè 1977, 298 avanza considerazioni equilibrate: “Le due concezioni di progresso e decadenza convivono nel sistema varroniano”. Ma meno d’accordo ci trova la conclusione formulata a 299 : “Nel prologo del terzo libro, invece, l’autore è interessato maggiormente alla naturale evoluzione storica e dimostra interessi eruditi, senza quei toni di viva polemica: è appena percettibile un’intonazione di problematicità e di rimpianto. Eppure anche qui si accentua l’importanza della vita agricola che anticamente forniva gli alimenti in tempo di pace e i soldati in tempo di guerra” (Varr. De r.r. 3, praef. 1, 4). Effettivamente la vis polemica e soprattutto satirica sembra attutita, ma sarà il caso di porre nuovamente l’accento su quello che pare più di un tenue rimpianto, in espressioni come: divina natura dedit agros, ars humana aedificavit urbes e nell’assai esplicito séguito di questa affermazione: neque solum antiquior cultura agri, sed etiam melior. itaque non sine causa maiores nostri ex urbe in agros redigebant suos cives, quod et in pace a rusticis Romanis alebantur et in bello ab his alebantur. nec sine causa terram eandem appellabant matrem et Cererem, et qui eam colerent, piam et utilem agere vitam credebant atque eos solos reliquos esse ex stirpe Saturni regis . Ci pare anzi che qui Varrone, rinunciando ai toni ‘menippei’, e sostituendoli con la rigorosa dimostrazione erudita, di fatto aggiunga un tassello in più a quanto aveva argomentato nel proemio al secondo libro: tornano qui, dopo il prologo del De agri cultura di Catone e il prologo al secondo libro varroniano, i maiores nostri , e con loro la dimensione storico-morale delle argomentazioni varroniane; torna esplicitamente l’impostazione moralistica, e la sua compenetrazione con la dimensione economica e politico-militare ( praef. 4: in pace... in bello ; praef. 5: piam et utilem agere vitam ). Viene aggiunta una priorità in termini di tempo, volta, sembrerebbe, in ulteriore titolo di vanto per le arti rurali – o almeno così ci fa sospettare l’uso di un verbo come praestare in praef. 3: immani numero annorum urbanos agricolae praestant . In tal modo sembrerebbe interpretare anche Scivoletto 1992 (a), 740-741 , per cui “Varrone riprende [...] un tema che doveva essergli gradito, cioè la vita degli uomini all’alba della civiltà, distinguendola in due fasi storiche, quella della vita rustica e quella dell’ urbana e dando il primato alla prima proprio in forza della sua antichità [...] e dell’afflato religioso che la contrassegnava”. Insomma, il punto di vista è certamente cambiato, ed è venuto allo scoperto lo studioso di Antiquitates , ma solo per mettere il suo armamentario erudito al servizio di una polemica che è ancora orientata in senso ‘catoniano’.
50 I rimandi sarebbero molti, a partire dalla citazione quasi testuale in praef. 15: omnes enim, sicut M. Varro iam temporibus avorum conquestus est, patres familiae falce et aratro relictis intra murum correpsimus et in circis potius ac theatris quam in segetibus ac vineis manus movemus . Ma sommariamente potremmo ricordare anche la ricomparsa degli antiqui nostri ( praef. 13) e la loro predilezione per la cura rusticationis (a praef. 17: illa Romuli proles... semper... rusticam plebem praeposuit urbanae ); come la fusione di argomentazioni morali e pratiche, non esclusa la nota varroniana sulla valetudo ( praef. 17), la maggiore pigrizia delle popolazioni urbane ( segniores visos , praef. 17), e persino l’inconfondibile dettaglio delle nundinae ( praef. 18, con continui rimandi precisi al testo di Varrone) e delle importazioni di frumento dalle regioni transmarine (in Varrone erano Sardegna e Africa) e delle uve dalle Cicladi (Varrone, invece, aveva Chio e Coo). Per un’analisi più completa degli elementi di ‘ideologia della terra’ nelle prefazioni ai singoli libri di Columella, si veda Scivoletto 1992 (b), 767-817 , in particolare a 804-806 sul prologo al sesto libro. D’altronde, la tendenza alla citazione diretta del proprio modello si mostra, nella stessa prefazione, anche nei confronti di Cicerone, punto di riferimento per quanto riguarda la costruzione retorica del brano (vd. Scivoletto 1992 (b), 788-790 ). Il debito di Columella nei confronti del prologo del De oratore ciceroniano ‘affiora’ in superficie in De re rustica 1 praef. 29, laddove il modello si trova menzionato (seppure in modo ‘obliquo’, relativamente ad una considerazione specifica): verum tamen, quod in Oratore iam M. Tullius rectissime dixit, par est eos, qui generi humano res utilissimas conquirere et perpensas exploratasque memoriae tradere concupierint, cuncta temptare .
51 Peraltro, la tradizione che voleva il τόπος del primato economico e morale dell’agricoltura e della terra presente nelle prefazioni di trattati didascalici agricoli sarà spezzata, dopo Columella, da Palladio, il quale, nella seconda metà del quarto secolo d.C., premetterà al suo Opus agriculturae solo poche considerazioni sulla necessità di ordire il tema con uno stile comprensibile ai rustici , invece di emulare, quod a plerisque factum est (1, 1), la dotta eloquenza dei retori. Che la scelta di Palladio sia consapevolmente in controtendenza con i precedenti del genere, e probabilmente in diretta polemica con Columella, è dimostrato da Maggiulli 1992, 825-839 .
52 Cfr. Fedeli 1990, 94 (in generale vd. 92-102 sull’intera tematica del contrasto città-campagna, e dell’‘ideologia agraria’ di cui stiamo parlando).
53 Oneste sono considerate anche attività quali medicina, architettura, studio ( doctrina rerum honestarum ), e soprattutto il commercio su larga scala, i cui utili possono infatti essere reinvestiti nella proprietà agraria. Cicerone non sembra far nulla per nascondere che il suo profilo di attività liberales coincide con quelle normalmente praticate dagli optimates .
54 Esiste un’indubbia contiguità fra i testi qui esaminati: Varrone, nel suo secondo proemio, intrattiene uno stretto rapporto intertestuale col De agri cultura di Catone; Columella, poi, citerà Varrone esplicitamente (attingendovi peraltro in più punti). Il Catone ciceroniano, secondo l’uso di molti studiosi moderni, ad un certo punto ‘si’ cita – ovvero rimanda ‘bibliograficamente’ al trattato del Catone reale.
55 Cic. Cato maior , 3: litteris Graecis quarum constat eum perstudiosum fuisse in senectute ; 26: et ego feci, qui litteras Graecas senex didici; quas quidem sic avide arripui, quasi diuturnam sitim explere cupiens, ut ea ipsa mihi nota essent quibus me nunc exemplis uti videtis . Ma forse non è il caso di guardare con tanta sufficienza all’affermazione ciceroniana, che pure è frutto in parte della ‘deformazione’ della figura di Catone nel dialogo. Così Marini 1993, 136 : “L’uso di perstudiosus vuole lasciar intendere che Catone era già stato studiosus di greco in gioventù? Lo confermerebbero alcuni episodi della sua vita: nel 209 comprese il discorso di Archita raccontatogli in greco da Nearco (cfr. paragr. 39); conosceva la storia greca e italica (Nep. Cato 3, 2); combatté a Siracusa per tre anni (Nep. Cato 1, 2); in Grecia nel 191 parlò in latino solo per una questione di principio (Plut. Cato mai. 12). L’affermazione, comunque sia, serve a dare una giustificazione allo sfoggio di cultura greca cui Catone non rinuncia nel dialogo e ad attenuare il conflitto culturale e ideologico con il gruppo scipionico. È l’elemento fondamentale della deformazione ciceroniana”. Anche il commento di Powell 1990 2 , 19-20 e 103 si esprime in questa direzione, là dove sostiene (a 103) che “there is no reason why we should not believe Cicero [...]. There is no implication in Cicero that Cato was ignorant of greek before he turned to the study of Greek literature [...]. Nor is the idea of a conversion to the study of Greek literature inconsistent with Cato’s opposition to many aspects of Greek culture; it is clear from Cato’s writings that he was familiar with Greek hostorians and other writers, and Plutarch ( Cato 2) and Pliny ( NH 29.14) note his use of unacknowledged quotations from Greek authors (cfr. Astin, Cato 162ff.) [...]. An interest in Greek literature need not imply that one agrees with everything one reads there”. Vorrei ricordare come nel fr. 1 del De medicina lo stesso Catone, pur interdicendo al figlio il contatto con la medicina greca (e adombrando addirittura un complotto dei greci per uccidere tutti i ‘barbari’ con i loro impiastri) gli consigli anche di inspicere , se non di perdiscere , i loro testi. La confessione di un’inevitabile presenza culturale? Dello stesso avviso sembra Powell 1990 2 , 103 . Ad ogni modo, l’influenza della cultura scientifica ellenica sul De agri cultura è stata dimostrata dal saggio di Boscherini 1970 : rifondendo in esso un precedente articolo sui grecismi nel trattato agricolo di Catone, Boscherini allarga la sua indagine al rapporto di Catone con la lingua e la letteratura greca in generale, e soprattutto agli influssi precisi di correnti della scienza tecnico-agricola, botanica, medica greca (soprattutto, ma non solo, ellenistica). Dell’influsso dei canoni del genere epidittico greco sulla prefazione al De agri cultura si era occupato in particolare Leeman 1974, 16-19 , i cui argomenti sono ripresi ed ampliati da Scivoletto 1992 (a), 745-746 . La misura dell’influenza diretta della cultura greca sul trattato agricolo catoniano è stata ridimensionata da Astin 1978, 162-163 e 164-165 , però nel complesso il discorso portato avanti nell’ intero capitolo Cato and the Greeks (pp. 157-181 ) va nella direzione di un riconoscimento della conoscenza da parte di Catone non solo della lingua, ma di ampie porzioni della letteratura greca, e anzi il quadro dipinto dallo studioso è quello di un personaggio ostile solo a determinati aspetti del dilagante ellenismo.
56 Un esempio particolarmente stridente di tali contraddizioni è quello, analizzato da Noè 1977, 292-297 , tra la polemica condotta nel proemio al secondo libro (analizzato qui sopra) – polemica che ad un certo punto si indirizza specificamente contro i possidenti che hanno ‘snaturato’ la destinazione d’uso dei loro terreni, convertendoli dall’agricoltura al grande pascolo – e l’argomento stesso del secondo libro, che tratta poi precisamente De re pecuaria ! Sul tema si veda ancora Della Corte 1970 2 , 75-87 , il quale ripercorre più in dettaglio lo snodarsi della polemica varroniana contro il lusso contemporaneo, e nuove forme di produzione nelle villae dei possidenti terrieri, lungo tutto il testo De re rustica . Beninteso, la nostra impostazione del problema è abbastanza lontana dai dubbi sulla ‘sincerità’ delle tirate moralistiche varroniane, e dalle accuse di ‘ipocrisia’ che Della Corte gli muove a 83 : il punto per me non è chiedermi quanto umanamente coerente fosse M. Terenzio Varrone, insieme severo censore dei costumi e opulento latifondista, ma semmai cercare di restituire, seppur per brevi saggi, un’idea delle inevitabili contraddizioni insite nelle stesse principali espressioni di una mentalità passatista come quella qui presa in esame, quando essa si confronti (come non può fare a meno, per arrivare all’espressione letteraria) con la cultura e la realtà del proprio tempo.
57 Ci riferiamo ovviamente al già citato Boscherini 1970 , in cui possiamo leggere ( a 24-25 ) anche un’affermazione che solo apparentemente contrasta con il discorso fin qui svolto. Parlando della probabile conoscenza dell’ Economico da parte di Catone, egli scrive: “Dei tre motivi su cui Senofonte fonda l’apprezzamento dell’agricoltura, due, quello della ricchezza che, con onestà, dona il lavoro della terra, e l’altro del vigore fisico e morale che nasce da questa attività sì che essa forma bravi soldati e bravi cittadini, ricorrono anche nella prefazione del libro di Catone. Anche se debbono essere inseriti in una realtà economica e sociale in parte differente”. Più che di ‘catonismo’, avremmo dunque dovuto parlare di ‘senofontismo’? No di certo. Occorreva riportare questa nota del Boscherini per rimediare ancora al rischio di schematicità del discorso fin qui sviluppato, e per precisarlo: come conclude lo stesso Boscherini, motivi come quello dei valori etici della vita dei campi non erano certo estranei alla cultura greca (si veda supra il paragrafo 1.1 I precedenti ellenistici: scoperta della città e invenzione della campagna ); essi sono però riutilizzati qui all’interno di una realtà peculiare,come è quella della Roma di Catone, in cui appellarsi alle radici rurali della civiltà romana aveva comunque un preciso significato in prospettiva ‘antiellenica’. Lo stesso Boscherini chiude ( a 122 ) il suo studio con la seguente distinzione: “Del resto abbiamo veduto che la sua [scil. di Catone] conoscenza della lingua e della letteratura greca fu notevolissima. E il suo antiellenismo è da collocare solo sul piano etico e etico-politico”. Conclusione, questa, sostanzialmente in sintonia con quelle di Astin 1978, 178-181 .
58 Vd. Plin. Naturalis historia 19, 87 e Lucius Ampelius, Liber memorialis 18, 8 sull’aneddoto di Curio Dentato e i Sabini.
59 Anzi, dopo il cataclisma delle guerre civili lo stesso discorso politico augusteo si costruirà in misura sorprendentemente ampia proprio sul recupero della tradizione quiritaria, non escluso il ‘ritorno alle campagne’.
60 Inoltre, soprattutto, dopo aver seguito nel capitolo precedente la traccia, tutta interna alla cultura greca, che ci portava verso una letteratura tutta ἀστεῖα, non sarà stato inutile, approdando a Roma, riequilibrare il quadro, sottolineando il ruolo simbolico giocato qui dallo spazio rurale come luogo della tradizione e dell’identità nazionali.
61I termini originari della questione furono fissati dagli studi di Leo 19122, 140-157 e di Jacoby 1961, 65-121 (i due interventi apparvero per la prima volta rispettivamente nel 1985 e nel 1905): come è noto, il primo postulava l’esistenza di un’elegia erotica soggettiva alessandrina come intermediario tra la commedia nuova greca e l’elegia latina, mentre il secondo negava che l’elegia greca abbia mai avuto, anche in età ellenistica, carattere eminentemente soggettivo, tale da farne un precedente diretto per l’esperienza dei latini. Se l’ipotesi di Leo è stata ripresa da Stroh 1971, 197-226, i più importanti studi successivi sulla questione si pongono invece in continuità con le posizioni di Jacoby (tra di essi andranno citati almeno Rostagni 1956, 23-48; Fedeli 1974, 23-41; Giangrande 1984, 29-58). In particolare, sull’importanza di Catullo e dei Poetae novi per l’origine del genere elegiaco ha insistito Alfonsi 1965, 354-365 (e Id. 1975, 364-366).
62 Il riferimento d’obbligo è, naturalmente, a Citroni 1995, 57-205 , cui si devono le riflessioni forse più penetranti su quella ‘cerchia’ di letterati che è insieme un’entità letteraria, trasfigurata nel mondo finzionale della poesia, ma anche un reale gruppo di persone, decisivo, nella sua concretezza di pubblico ‘primo’, nell’influenzare scelte linguistiche e stilistiche, nel determinare occasioni compositive e aspettative di lettura. Prima di lui vanno citati almeno il sempre utile saggio di Alfonsi 1945, come anche Quinn 1969 2 , 44-48 (per la ‘scuola’ dei νεώτεροι ) e 85-100 (sul pubblico della poesia catulliana). Sull’ urbanitas neoterica, vd. ancora Havelock 1939, 97-101.
63 Sul lessico dell’eleganza in Catullo si veda in primo luogo Ross 1969, 105-111 , il quale evidenzia il collegamento tra il vocabolario dell’ urbanitas e la poesia dei polimetri, nel quadro più generale del Programm poetico neoterico. Efficace la sintesi di Fordyce 1961, 197 ad Cat. 43, 8 : “ facetus (12. 9, 50. 8) ed infacetus (22. 14, 36. 19), salsus (12. 4, 14. 16) ed insulsus (10. 33, 17. 12, 27. 6), uenustus (3. 2, 13. 6, 22. 2, 31. 12, 35. 17, 97. 9) ed inuenustus (10. 4, 12. 5, 37. 17), elegans (13. 10, 39. 8) ed inelegans (6. 2), urbanus (22. 2, 39. 8) e rusticus (34. 19) sono i clichés che nonostante le loro sfumature possano sfuggirci, riflettono l’atteggiamento ed i valori della società di Catullo, una società che carica di valore l’ appeal ( uenustas ), la distinzione ( elegantia ), l’arguzia ( sal ), il carattere metropolitano ( urbanitas ), e riserva solo disprezzo per la sciatteria, la mancanza di sensibilità, la goffaggine e la provincialità”. Vd. anche Fordyce 1961, 131-132 ad Cat. 12, 8 (in particolare 185-186 ad Cat. 39, 8 , sugli usi propri e traslati di urbanus ), e i saggi di Gamberale 1979, 127-148 ; Id. 1982, 143-169 .
64 È durante un banchetto che Asinio Marrucino ha rubato il fazzoletto a Catullo, in un carme ( Cat. 12) che diventa un’occasione per citare altri amici e i loro raffinati scambi di doni. Lo scenario simposiale ritorna nel c. 27, e viene giocosamente rielaborato in un carme come Cat. 47, in cui Veranio e Fabullo, appartenenti alla cerchia dei sodales di Catullo, sono presentati alla ricerca disperata di un invito, mentre i pisoniani Porcio e Socratione banchettano sumptuose de die , ovvero a partire dal pieno giorno, da parvenus ignari delle regole dell’eleganza. All’estremo opposto rispetto ad essi si colloca Catullo che nel notissimo invito del c. 13 proprio a Fabullo prefigura un banchetto... senza vettovaglie, ma cui non manca la più soave eleganza, meros amores (vd. Gamberale 1979, 127-148 ; Citroni 1995, 169-170 ).
65 Con un carme come Cat. 50, ci troviamo nel cuore di quel nodo, così ben evidenziato da Citroni 1995 , di una poesia che si rappresenta nel suo farsi, ma soprattutto mostra la sua prima e più immediata ricezione – all’interno di un gruppo ristretto di intellettuali. Sulla rappresentazione del circolo di amici-letterati nel carme, e sulle sue iperboliche quanto giocose esagerazioni, cfr. Syndikus 1984, 250-254 , mentre il rivivere all’interno della cerchia neoterica della tradizione greca dell’improvvisazione simposiale è stato scandagliato da Landolfi 1986, 77-89 .
66 Il fazzoletto già citato di Cat. 12 era stato un dono proveniente dall’estero, come lo sono i versi dei cattivi poeti regalati da Calvo nel c. 14a. Ma di quanto si amplierebbe il numero di doni circolanti all’interno del liber catulliano, se vi includessimo tutti i carmi che si presentano essi stessi come munus poetico, primo fra tutti la Chioma di Berenice ( c. 66, col suo ‘bigliettino’ di presentazione, c. 65)! Al riguardo non si può che rinviare ancora una volta allo studio di Citroni 1995, 57-205, passim .
67 Si pensi all’itinerario cittadino di Catullo alla ricerca di Camerio nel c. 55 (con l’appendice del c. 58b, che Goold 1983 integra nello stesso carme 55, dopo il v. 13), ma evocazioni della realtà urbana di Roma si trovano anche in Cat. 10, 26; 14a, 17-18; 15, 7; 33, 1; 37, 1-2 (l’‘indirizzo’ della salax taberna ); 58a 1-5. Il tema è di origine comica: esso ricorre in Plaut. Epid. 196-200, con l’ovvio complemento della stanchezza per la ricerca, ben integrato con la topica del servus currens (vd. Cat. 55, 13 e soprattutto 58b, 9-10; cfr. Gray 1893, 31 e Ussing 1875 I, 633 per i – pochi – passi paralleli greci ai versi plautini). In termini molto simili lo ritroviamo anche in Plaut. Amph. 1009-1014 (cfr. tra l’altro v. 1014 sum defessus quaeritando con Cat. 58b, 8-9 multis languoribus peresus / essem te mihi, amice, quaeritando ); vd. anche Ter. Adelph. 574-584 e 713-718, e i riferimenti precisi a realtà dell’ urbs in Plaut. Capt. 90; 489; 815. Su questo mi permetto di rimandare a me stesso ( Monella 2006, in corso di pubblicazione ). Della fortuna che conoscerà nei testi elegiaci, dirò ovviamente più in dettaglio nei capitoli seguenti – basti per ora richiamare la consacrazione che gli darà Ovidio in quel ‘prontuario di amore elegiaco’ che è l’ Ars amatoria (1, 41-264). Per parte sua, Leach 1988, 276 ridimensiona il ruolo della “descriptive imaginery” nella rappresentazione catulliana dei luoghi della città: “Nella galleria di Catullo, però, poche ambientazioni sono descritte esplicitamente, e la maggioranza di esse sono collocate fuori da Roma. La topografia romana è rappresentata da poco più che singole frasi – ‘me duxerat e foro otiosum’; ‘salax taberna’; ‘in quadriviis et angiportis’. In assenza di un simbolismo figurativo di matrice descrittiva, il poeta si affida alla mappa delle associazioni personali del proprio lettore con le zone rispettabili e malfamate della città”. Dal punto di vista testuale, si è ritenuto che i carmi appena citati, Cat. 55 e 58a, potessero costituire originariamente un componimento unico: sulla problematica si veda, tra gli altri, Bianco 1964, 33-44 . Sull’itinerario di Catullo nel c. 55 attraverso i “luoghi d’incontro della vita mondana”, vd. Syndikus 1984, 271-272 ; sull’interpretazione dello humour del carme, spesso non trasparente (almeno per i lettori moderni), vd. Killeen 1976, 253-264 . Per parte sua, Landolfi 1984, 166-181 legge il carme come variazione del τόπος del silentium amoris di tradizione ellenistica (e offre a 177 n. 45 ulteriore bibiografia sul carme, cui vanno aggiunti almeno Wiseman 1980, 6-16 e Id. 1981, 155 ).
68 In Catullo, come vedremo tra breve, la centralità di Roma non è ancora un motivo così rigidamente canonizzato (come sarà per gli elegiaci) da impedire che in un carme come Cat. 35 uno scorcio della vita intellettuale degli amici -poeti di Catullo si svolga a Verona, almeno se individuiamo delle poesie nelle novae cogitationes che Catullo invita Cecilio a venire ad ascoltare da Como a Verona (Cat. 35, 1-6: Poetae tenero, meo sodali, / velim Caecilio, papyre, dicas / Veronam veniat, Novi relinquens / Comi moenia Lariumque litus: / nam quasdam volo cogitationes / amici accipiat sui tuique ). Sui rapporti all’interno del circolo dei letterati è basata l’interpretazione del carme di Syndikus 1984, 199-205 . Si vedano anche Ellis 1889 2 , 129 , il quale accoglie solo dubitativamente l’ipotesi di Schwabe per cui le cogitationes in questione costituirebbero poesie dello stesso Catullo; Fordyce 1961, 177 (il quale pensa ai componimenti di un amico); e Thomson 1997, 293 . Diversamente Godwin 1999, 152 : “ Cogitatio è deliberatamente vago, e non scopriamo mai cosa siano queste ‘meditazioni’ ”.
69 Non prendiamo qui in considerazione le menzioni dei campi all’interno di paragoni (Cat. 62, 49-55 all’interno dell’imeneo; 64, 354-355 nel contesto della profezia sul futuro di Achille; 68b, 62-67 sull’aiuto dato da Allio al poeta) o in contesti particolari come quelli di Cat. 34, 19-22 (l’inno a Diana), o 46, 6, dove il poeta sta per lasciare l’ ager di Nicea per tornare in Italia. Su quest’ultimo carme, comunque, torneremo più avanti.
70 Almeno se in Cat.26, 1 si legge nostra e non, come Goold 1983 , vestra .
71 Vd. Fordyce 1961, 198 : “La fertilità della zona e la sua proverbiale salubrità (Hor. Od. i. 18.2 ‘mite solum Tiburis’, ii. 6.5-20) facevano di Tivoli e dei suoi dintorni un centro di villeggiatura in cui molti Romani che avessero denaro ed un certo status sociale possedevano case di campagna (per una descrizione di una di esse vd. Statius, Silu. i. 3). Catullo può trarre vantaggio dalla sua vicinanza a Tivoli per attribuirsi un ‘indirizzo alla moda’, ma la sua pretesa può essere rintuzzata: ‘un posto nella campagna sabina’ non ha alcuna associazione aristocratica, e suggerisce stili di vita campagnoli, semplici, persino primitivi”.
72 Il marchio di infamia della rusticitas è evidentemente tabù più esecrabile, per il poeta, di quello finanziario derivante da un’ipoteca di 15.200 sesterzi, che anzi si autoattribuisce nel c. 26, con tono giocoso.
73 Sostiene Fordyce 1961, 160 : “Mamurra veniva da una famiglia benestante di rango equestre di Formia, nel Lazio meridionale, il posto che Orazio [...] chiama urbs Mamurrarum ( Sat. i. 5. 37) [...]. Si potrebbe sospettare che le ragioni della rabbiosa rivalsa di Catullo siano personali, e che Mamurra non gli era inviso tanto per i suoi costumi o le sue posizioni politiche, quanto per l’essersi ritagliato una posizione di spicco nella società di Roma e della Gallia Cisalpina, dove Cesare aveva i suoi quartieri invernali”. Forte è la tentazione di cedere alla suggestione ‘modernizzante’, e leggere il provincia di Cat. 43, 6 nel senso traslato che la parola ha in italiano, e in molte delle lingue europee moderne (in questa direzione sembra puntare Syndikus 1984, 232 ). Anche sopra ho inteso indulgere a questa ambiguità semantica. Ma va tenuto presente che in latino, al di là dell’intonazione denigratoria che il termine può assume in contesti come appunto quello che stiamo esaminando, provincia indica un concetto ben preciso, ovvero una regione non appartenente direttamente al suolo romano, come appunto era al tempo di Catullo la Gallia Cisalpina cui quasi sicuramente egli si riferisce (vd. anche Cat. 10, 22). Non arriveremmo, però, a negare l’esistenza di un tono anche connotativo (denigratorio), come fa Fordyce 1961, x quando scrive, a proposito della Gallia Cisalpina: “la regione conservava una vigorosa autoconsapevolezza – per Catullo essa è ‘la Provincia’ (43.6) ed i Transpadani sono ‘la mia gente’ (39.13)”. Nell’inciso ut meos quoque attingam di 39, 13, come del resto dietro tutto il catalogo degli abitanti dell’Italia, più che ‘orgoglio padano’, intavvediamo un sorriso divertito, e la sola antonomasia per cui la Cisalpina diventa la provincia non basta a controbilanciare lo sbotto finale dell’epigramma, causato proprio dalla mancanza di gusto di Mamurra e della provincia : o saeclum insipiens et infacetum!
74 Si potrebbe obiettare che nei carmi 114 e 115 i campi sono semmai misura delle ricchezze dell’avversario di Catullo. Da qui i condizionali. In effetti, lo stesso fatto che Catullo ‘conceda’ che Mamurra sia ricco, a patto però di profetizzarne il tracollo finanziario ( c. 114) o almeno di prendersi il gusto di definirlo una mentula magna ( c. 115), dimostra già di per sé come i carmi siano una sorta di replica a chi ammiri le grandi proprietà fondiarie di Mamurra. Resta tuttavia il fatto che mai, al politico cesariano, sia concesso il privilegio di un ritratto con quello sfondo cittadino che così spesso compare dietro le figure degli amici di Catullo.
75 La prima parte del v. 2 del carme presenta una corruttela nella tradizione manoscritta, che presenta et eri rustice semilauta crura . La scelta fondamentale per il senso è tra Heri rustica (o rustice ) semilauta crura , dove le gambe sarebbero di un tale Herus , e soluzioni come quella di Goold 1983 et, trirustice, semilauta crura , dove esse apparterrebbero all’ Otho del v. 1 ( Othonis è congetturato da Otonis ). La cosa certa, e qui la sola interessante, è che si tratti di personaggi appartenenti alla cerchia politica dell’ unicus imperator Cesare.
76 Fin troppo facile fare della Ohrenphilologie , leggendo in 22, 8: pumice omnia aequata : chi non ricorda il lepidum novum libellum / arida modo pumice expolitum di 1, 1-2? A vedere più da vicino, anche il novus di 1, 1 ha un riscontro in 22, 6-7 ( chartae regiae novae bibli, / novi umbilici ). Ma non meno evidente è il ruolo-chiave di un termine come venustus (22, 2), che ritroviamo (nelle sue varie forme e nei suoi derivati) in 3, 2; 10, 4; 12, 5; 13, 6; 31, 12; 86, 3; 89, 2; 97, 9; e ancora in 35, 17; 36, 17, dove è propriamente attribuito a opere poetiche. Quanto a urbanus , che è poi uno dei termini fondamentali su cui ruota l’analisi condotta in questo capitolo, può essere interessante notare come la sua presenza in un carme evoca sempre, in tutti i casi del suo uso catulliano, il proprio contrario, ovvero marca un’opposizione con qualcuno o qualcosa che urbanus non è: questo è il caso, appunto, di c. 22, 2 e 9, ma anche di 39, 8 e 10 (termine di confronto: il provinciale Egnazio); 57, 4 (Cesare urbano vs. Mamurra di Formia). Sulla caratterizzazione ‘neoterica’ dell’eleganza esteriore dei volumina di Suffeno, come anche sulle categorie dei giudizi letterari espressi in carmi come c. 44 e 95 (che saranno qui analizzati più avanti), vd. Gamberale 1982, 143-169 e Adamik 1995, 77-86 , il quale propone infine una suggestiva ma difficilmente verificabile identificazione tra Suffenus e Cicerone.
77 In verità, nel ritratto di Suffeno come poeta quasi-neoterico non mancavano ‘note stonate’: nessun poeta davvero venustus avrebbe composto longe plurimos... versos / ... milia aut decem aut plura (22, 3-4). E poi l’immagine letteraria di questi poeti era tale che, avessero anche per assurdo redatto tanti versi, non avrebbero potuto comunque permettersi un tale spreco di materiale scrittorio pregiato. In Suffeno persino l’eleganza e la (ostentata) urbanità sono eccessive: non a caso per lui Catullo usa, hapax nel suo pur breve liber , quel termine scurra che nelle attestazioni precedenti a Catullo (quasi tutte plautine, in verità, o comunque comico-satiriche) indicava l’aspetto più ambiguo del carattere cittadino, in bilico tra l’uomo di spirito, l’uomo di mondo e il dissoluto, e finirà poi, sviluppando la prima accezione, per indicare il vero e proprio buffone. Cfr. Ernout-Meillet 2001 4 , 606 s.v. scurra : “ ‘Citadin’, ‘civil’, le plus souvent avec une nuance de mépris ou d’injure (opposé à homo militaris , Plt., Ep. 15; cfr. aussi Tri. 202, urbani adsidui ciues quos scurras uocant ); ‘falant, mignon, débauché’, cfr. Cic., Sest. 17, 39, de harusp. resp. 42, ad Herenn. 4, 14; usité surtout dans le sens de ‘bouffon’ et ‘parasite’ ”. Vd. ancora Corbett 1968, 118-131 sull’uso di scurra in Plauto e Putnam 1968, 557-558 , il quale attribuisce a scurra in Cat. 22, 12 un valore positivo ( contra , Adamik 1995, 81), e difende al v. 13 la lezione tritus .
78Sulla critica letteraria catulliana nel c. 36, vd. Buchheit 1959, 309-327.
79 Per inciso potremmo notare come questo rappresenti un tipico esempio di quella circolazione ‘privata’ di testi letterari cui fa riferimento il già citato saggio di Citroni 1995 nei primi capitoli, soprattutto a 31-56 . L’unico impiego di venenum in senso proprio, in Catullo, si ritrova in 23, 10. In 14a, 19 invece esso indica ancora un’‘intossicazione letteraria’, mentre in 77, 5-6, di nuovo in connessione con pestis , esprime gli effetti del tradimento di Rufo. A loro volta anche i derivati di pestis trovano sempre un uso metaforico: oltre che Cat. 23 e 77 si può citare 26, 5 (l’ipoteca sul fundus di Catullo è ventum horribilem atque pestilentem ).
80 Per una definizione ‘scientifica’ (e alcune cure) della gravedo cfr. Celsus, De medicina , 4, 5, 2 ss.
81 Sono naturalmente ipotizzabili spunti autobiografici, ma nell’interprtazione del carme essi sono abbastanza irrilevanti: che abbia avuto o no l’influenza Catullo, quanto importa è analizzare in che modo la gravedo , ed eventualmente anche la sua cura in campagna, possano diventare segni di un proclama di satira letteraria.
82 Tra i paralleli si segnala, per la concomitanza dell’accusa di rusticitas , Quint. Institutio oratoria 6, 1, 37: Nam et imperitia et rusticitas et rigor et deformitas adferunt interim frigus, diligenterque sunt haec actori providenda (a proposito dell’arte di ‘mettere in scena’ epilogi ad effetto delle proprie orazioni). In Cicerone e Quintiliano un uso frequente della categoria della frigiditas è in relazione alla (in)capacità di movere risus : Cic. De Oratore 2, 260 (all’interno del noto excursus de ridiculis ); Quint. Institutio oratoria 6, 3, 4 (in lode proprio dello humour ‘urbano’ di Cicerone); 6, 3, 53; 6, 3, 55. Più in generale essa indica la mancanza vis performativa dell’oratore: Cic. Brutus 178, 11; Epist. ad Fam. 8, 9, 5; Epist. ad Quintum 3, 3, 3; Quint. Institutio oratoria 4, 2, 59; 8, 5, 30; Tac. Dialogus de oratoribus 39, 5. In relazione con l’ adfectatio , si vedano Cic., De Oratore 2, 256: sed cum plura sint ambigui genera [...], in quo, ut ea, quae sint frigidiora, vitemus, – est enim cavendum, ne arcessitum dictum putetur – permulta tamen acute dicemus (ancora in relazione alle battute, sui doppi sensi); Orator 89, 2: vitabit etiam quaesita nec ex tempore ficta sed domo allata quae plerumque sunt frigida ; Quint. Institutio oratoria 4, 1, 77: illa vero frigida et puerilis est in scholis adfectatio ; 9, 3, 74: nam per se frigida et inanis adfectatio, cum in acris incidit sensus innatam <gratiam> videtur habere, non arcessitam .
83 Sarebbe interessante poter precisare il senso degli altri due termini attraverso cui si delinea il giudizio di Catullo al v. 12: plenam veneni et pestilentiae . Del loro uso metaforico si è già discusso supra , a n. 79 : in atto sarà senz’altro utile riprendere il parallelo con Cat. 14a, 17-20: si luxerit, ad librariorum / curram scrinia; Caesios, Aquinos, / Suffenum, omnia colligam venena , / ac te his suppliciis remunerabor . Sullo stile di questi poeti irrimediabilmente perduti ben poco possiamo dire, e certo per venenum si dovrà intendere in generale uno stile ‘pestilenziale’ (persino dannoso per la salute, pare). Ma nella lista di 14a, 19-20 troviamo un nome familiare: la ben nota valutazione del nostro Suffeno da parte di Catullo (vd. c. 22) consisteva nella contrapposizione tra un’ urbanitas affettata, tutta esteriore, e una effettiva mediocrità artistica. È davvero poco per attribuire a venenum un significato ‘tecnico’, ma certo dimostra che anche un uomo legato al circolo letterario dei νεώτεροι (vd. 22, 1: Suffenus iste, Vare, quem probe nosti ) poteva produrre invece venenum . Su questi aspetti si confrontino Gamberale 1982, 143-169 . e Adamik 1995, 79 .
84 Non è più che una suggestione, una proposta di lettura. Certo, non ci stupiremmo se Catullo portasse avanti un gioco di simbologie metaletterarie così sottile; e soprattutto, bisogna pur spiegarsi (Celso da solo non è sufficiente) il ruolo centrale all’interno del carme di questo fundus , cui il poeta attribuisce (più ancora che al solo riposo e all’ortica) la propria guarigione: Cat. 44, 16-17: quare refectus maximas tibi grates / ago, meum quod non es ulta peccatum . E credo che ad ogni modo una contrapposizione di valore tra città e campagna, risolta in favore di quest’ultima sia comunque da riconoscere almeno ad un altro livello (per me coesistente, e parallelo al primo), quando Catullo riconosce di essersi meritato il malanno per via del suo venter , per aver desiderato le sumptuosae... cenae di Sestio (vv. 8-10), e sceglie di andare a curarsi laddove non ci si sollazza in bagordi, nel sinus della campagna (si noti la connotazione affettiva del termine: cfr. Cat. 2, 2; 37, 11 e anche 63, 43), campagna che perdonerà infatti il peccatum della sua cena. Chi voglia appiattire il senso del componimento su questo solo livello, deve però poi rendere conto dell’incongruenza di un venter che, tramite un banchetto forse anche troppo lauto, provoca però raffreddore e tosse (non si dimentichi il frigus del v. 20). Sul linguaggio innodico-sacrale che caratterizza l’ Anrede alla campagna, e per un’interpretazione in chiave poetologica del componimento e del “raffreddore letterario” del poeta, vd. Syndikus 1984, 234 .
85 Nello stesso quadro di rappresentazioni parodiche delle realtà periferiche rientra anche lo sdegno di Catullo esibito nel c. 81, che contrappone al populus della capitale la moribunda colonia di Pesaro: anche il colore del rivale pesarese di Catullo, cui sono andati i favori di Giovenzio, richiama la morte: al v. 4 lo hospes è inaurata pallidior statua (cfr. Della Corte 1977, 345 con ulteriore bibliografia). Non meno caustico è il quadro della bononiensis Rufa in Cat. 59. Lo spassoso carme delle vocali aspirate di Arrio (Cat. 84) non accenna invece ad un’origine extraurbana del protagonista, nonostante che i suoi difetti di pronuncia possano anche essere dovuti ad interferenza linguistica. Vd. Fordyce 1961, 373 : “Arrio è un parvenu di umili origini che ha difficoltà con le aspirate, e nel suo sforzo di imitare il linguaggio colto le inserisce nei posti sbagliati” e 374: “Le teorie che riferiscono gli errori di pronuncia di Arrio ad un’origine etrusca (A. J. Bell in C. R. xxix [1915], 137) o al fatto di avere il venetico come lingua madre (E. Harrison, ib. 198) non sono né convincenti né necessarie”. Il commento di Syndikus 1987, 53-54 ricollega il carme all’intricata problematica delle aspirate in latino, e a partire dalla trattazione quintilianea del problema (Quint. 1, 5, 19-21).
86 Per parte propria, Godwin 1999, 159 rimanda all’autorità di Diodoro (5, 33, 5) e Strabone (3, 164) per confermare la rivelazione catulliana sull’igiene dentale dei celtiberi, e interpreta anche anche la notazione sui lunghi capelli di Egnazio in relazione all’origine provinciale: “La Celtiberia si trova in spagna, e il coniglio spagnolo era famoso per avere un pelo particolarmente lungo (cfr. 25.1): l’epiteto cuniculosae è dunque eccellente, in quanto rappresenta insieme un elemento ‘erudito’ di informazione sul luogo (come harundinosam in 36.13), e una caricatura di un Egnatius dai lunghi capelli come i conigli suoi compatrioti”.
87 Non si può dire infatti che gli epiteti attribuiti a queste popolazioni siano elogiativi: Cat. 39, 11-12: aut pinguis Umber aut obesus Etruscus / aut Lanuvinus ater atque dentatus . Gli ultimi due non sono facilmente spiegabili, e pinguis è congetturato a partire dal parcus del codice V (vd. Fordyce 1961, 186-187 e Syndikus 1984, 220 ); ma la volontà caricaturale è evidente. Per questo vedo un tono sottilmente autoironico nel v. 13: aut Transpadanus, ut me os quoque attingam , e non, come mi pare intenda Fordyce 1961, x, al limite dell’orgoglio nazionale (vd. supra , n. 73 ).
88 Non si dimentichi che Egnazio, in 37, 17-20, compare come rivale di Catullo – l’unico, peraltro, citato personalmente. Un’altra rappresentazione negativa dell’estrema lontananza è quella della Persia in Cat. 90, dove però non si individua un personaggio straniero da stigmatizzare, e al posto della parodia della rozzezza troviamo una sorta di sacro terrore generato dall’evocazione della Persarum impia religio . Il tono ‘fosco’ del componimento serve a sferzare più duramente l’oggetto dell’invettiva, Gellio. Sulle forme di contatto tra la cultura romana e il mondo magico e religioso orientale, e della Persia in particolare, vd. Syndikus 1984, 71 .
89 Vd. supra , n. 68.
90 Si potrebbe menzionare la descrizione iniziale del ponticello in 17, 1-6, che ha senz’altro un tono divertito e canzonatorio (però assai bonario) e riguarda un luogo che doveva essere ben riconoscibile almeno dai veronesi.
91 Nella designazione di Cat. 17, 17 municipem meum è arduo riconoscere una particolare commozione, nondimeno la stessa descrizione del ponticello, di cui si è già evidenziata l’ironia non tagliente, ma molto ‘empatica’, mostra come il poeta non prenda affatto le distanze dall’ambiente che descrive. Più esplicito il tono di 67, 34: Brixia Veronae mater amata meae , mentre l’identificazione di Celio e Quinzio come Veronenses in 100, 2, unita alla forte affermazione del vincolo d’amicizia che lega a loro il poeta, finisce per affermare il sentimento di appartenenza di Catullo al proprio luogo natio.
92Vd. supra, paragrafo 2.4 Poli decentrati.
93 Un’eccezione, se vogliamo, è costituita proprio dai carmi su Egnazio esaminati in precedenza, in cui la lontananza è rappresentata in termini di barbarie, ovvero di estrema alterità rispetto alle categorie dell’urbanità.
94 In realtà la Britannia deluse poi molto le aspettative di chi l’aveva vista come una sorta di El Dorado : il fascino del lontano e del non conosciuto a volte annebbia anche gli avidi predatori di province. Vd. Ellis 1889 2 , 97-98 e 100; Fordyce 1961, 16 1; Syndikus 1984, 176-177 e Godwin 1999, 144 .
95 Citroni 1995, 140-147 attribuisce al carme una funzione ‘celebrativa’ che si inserisce nei ‘rituali’ letterari del circolo neoterico, andando oltre le semplici considerazioni sulla leziosità dello stile.
96 Vd. Fordyce 1961, 208 : “ Syrias Britanniasque [...]: nomi che evocano avventure romantiche, l’Est favoloso e i misteriosi confini del mondo. La loro scelta suggerisce una data intorno al 55 d.C., quando la spedizione orientale di Crasso e quella di Cesare in Britannia erano nell’aria, e senza dubbio abitavano i pensieri dei giovani uomini intraprendenti che speravano di fare la propria fortuna”. Sulla praeda della Britannia, vd. supra , n. 94 . L’ansia della donna che aspetta il ritorno dell’uomo in guerra è dipinta nella prima parte della Chioma di Berenice , ma in tutt’altro contesto (vd. 66, 11-12).
97 Citroni 1995, 128-132 lumeggia il rapporto del carme con “gli schemi regolari di preghiere e di monologhi pronunciati, nel dramma attico, dal viaggiatore che torna a casa e saluta la terra patria che lo accoglie” (130) e con “il saluto ai Lares o ai Penates da parte del pater familias che torna a visitare la sua villa ” come “atto rituale tradizionale” romano.
98 Naturalmente, anche a questo carme si applicheranno le considerazioni svolte sopra (nel paragrafo 2.4 Poli decentrati ) sulle eccezioni al paradigma della centralità di Roma: nella contrapposizione tra il noster... lectus (vv. 9-10) e gli spazi esterni, il primo non si colloca a Roma, ma sulle rive del lago di Garda.
99 Proprio da questa enfasi, naturalmente, nascono i dubbi di chi vuole rovesciare l’interpretazione del carme, negandogli ogni ‘serietà’ di tono. Una lettura raffinata della patina di ironia e del tono ambiguo del carme è in Citroni 1995, 127-140 .
100 Citroni 1995, 133-135 dimostra l’origine epigrammatica di questa descrizione della primavera (soprattutto Leonida, Anthologia Palatina 10, 1).
101 Vd. Fordyce 1961, 209 : “ clarus suggerisce il tour turistico ( sightseeing tour ), ed è una parola molto amata nello stile-Baedeker di Mela e Plinio: così Hor. Od. i. 7. 1 ‘laudabunt alii claram Rhodon aut Mitylenen / aut Epheson’ ”. Cfr. Citroni 1995, 135 e Syndikus 1984, 242 , il quale ( a 240-241 ) aveva ricondotto gli aspetti ‘gioiosi’ del viaggio catulliano a modelli epigrammatici. S ul tono complessivo del carme, vd. Degl’Innocenti Pierini 2004, 121.
102 Il motivo del viaggio in questo carme è stato messo in relazione con quello odissiaco nei due noti saggi di di Conte 1985, 3-14 ( Memoria dei poeti e arte allusiva. A proposito di un verso di Catullo e di uno di Virgilio ) e di Biondi 1976, 409-425 , di cui il primo pensa soprattutto, come è noto, all’ incipit dell’Odissea, il secondo alla discesa agli inferi nell’undicesimo libro. Nel saggio di Conte ( Conte 1985, 6 ) la sfumatura negativa di vectus cui si accennava sopra era ricollegata al punto di riferimento omerico: “Anche l’ultima parola del verso, vectus , è attenuazione appropriata del πλάγχ θ η (‘ andò errando sbattuto’)”. In séguito, però, Landolfi 1996, 255-260 è intervenuto a precisare la fondamentale mediazione di Apollonio Rodio ( Argonautiche 3, 348-349, il quale a sua volta aveva composto “un vero e proprio collage di tessere omeriche”, combinando diverse ripetizioni formulari del motivo dell’ incipit odissiaco, e consegnando il risultato all’imitazione di un altro poeta-filologo, Catullo. In particolare sul passaggio dall’omerico πλάγχθη al latino vectus attraverso lo ejpalhqeiv" già odissiaco, e poi selezionato da Apollonio, vd. Landolfi 1996, 256 n. 5; 258 nn. 17 e 18 . Sul carme 101 disponiamo adesso anche della fine analisi di Bellandi 2003, 65-134, il quale arricchisce il quadro delle possibili fonti epigrammatiche e tragiche del componimento, dedicando un’appendice del proprio studio alla fortuna del ricordo catulliano fino a Foscolo.
103 Già il viaggio di Attis e delle Gallae sue compagne verso la Frigia è stato pericoloso (vv. 1 e 14-16), ma ancor più ‘orridi’ sono i luoghi che ha trovato (vd. ad es. vv. 52-54; 70-72). Tra l’altro, il rimpianto per la patria si traduce ai vv. 59-60 in un’immagine molto ‘urbana’ e anzi stranamente romana, in quanto mescola ai caratteri peculiari della città greca ( palaestra , stadium e gymnasium ), peraltro ampiamente assimilati dalla Roma ellenizzante, il forum di tradizione latina. Andrà anche detto, con Morisi 1999, 126 , che “se per άγορά il latino può disporre di un corrispettivo soddisfacente, il prestito è invece necessario per παλαίστρα , στάδιον e γυμνάσιον ” (così già Fordyce 1961, 268 , il quale a 261 sostiene che l’intero carme costituisca una traduzione dal greco). Il commento di Morisi attira la nostra attenzione anche sul fatto che i luoghi citati non solo appartengono tutti alla civiltà ellenistica, ma sono “destinati ad una fruizione esclusivamente maschile”. Un’analisi del ruolo giocato dallo spazio (dal viaggio ai luoghi ‘orridi’ della Frigia) in Cat. 63, in stretta relazione con l’esperienza psicologica di Attis, si trova in Leach 1988, 117-122 . A Morisi 1999, 13-45 bisognerà ancora rimandare per le sue interessanti considerazioni sulla distanza transmarina come emblema del distacco tra umano e divino, e sugli aspetti ‘proto-elegiaci’ della figura di Attis.
104 Su Cat. 68b si veda Citroni 1995, 89-93 .
105 Cfr. Conte 1985, 11 n. 18 , sulla “eroizzazione” del fratello tramite l’accostamento con il viaggio iliadico in c. 101, 1 e con gli eroi iliadici nei diversi contesti dei carmi 101 e 68. A proposito di quest’ultimo componimento Conte scrive: “in quell’occasionne l’odio vivo per Troia [...] che gli aveva strappato il fratello, lo portava a trattare gli eroi del mito, caduti laggiù, come poveri giovani sventurati al pari del fratello stesso (il nome di Protesilao valeva per tutti, come in altri esempi di poesia elegiaca). Ma adesso [scil. in Cat. 101] , quietata col tempo la crudezza del dolore, Catullo, dinanzi alla tomba del fratello sepolto nella terra del mito, può ritrovare – per farne omaggio al proprio defunto – il ricordo di quegli eroi con cui egli ora quasi lo vorrebbe confuso”. Cfr. Leach 1988, 116 : “Conseguentemente, i viaggi in Catullo figurano come una delle condizioni della vita romana. Essi costituiscono stadi di una biografia o nel progresso di una carriera che possono anche agire come caratteri determinanti di una fortuna. Così il viaggio frequentemente appare un motivo ambivalente. Può essere senza frutto come il viaggio del poeta in Bitinia; o fonte di corruzione, come la conquista della Gallia da parte di Cesare; o distruttivo, come il viaggio del fratello a Troia”.
106Sul tema del viaggio-esilio in Cat. 11 è possibile rinviare a Joly 1974, 435-454.
107 Se consideriamo che il tema del viaggio è strettamente legato, negli elegiaci, a quello del distacco degli amanti, si potrà porre a raffronto anche il caso di Cat. 35, 8-10 (per cui vd. Citroni 1995, 149 ).
108 In 12, 14-16 gli amici di Catullo, in Spagna per una campagna militare, gli hanno mandato fazzoletti di Jativa, che Catullo fa mostra di stimare molto, anche se soprattutto come souvenir ; in 25, 7 ritornano gli stessi fazzoletti, insieme con panni ricamati della Bitinia (la stessa Bitinia di cui il poeta serbava un così aspro ricordo). Sul prestigio dell’industria tessile di Jativa abbiamo una notizia di età imperiale in Plin. Naturalis historia , 19, 9.
109 Vd. Della Corte 1977, 352 , che raffronta Nonno, 13, 458-460.
110 Cfr. ancora Della Corte 1977, 352 .
111Sul sistema di opposizioni del carme, che dal piano dei personaggi (Cinna/Ortensio e Cinna/Volusio) si proietta su quello della poetica, vd. lo studio di Bellandi 1978, 185-198, il quale tra l’altro prende posizione contro la proposta di sezionare il c. 95 in due componimenti distinti.
112 Vd. il più volte citato Citroni 1995, 57-205 . Il sistema dei destinatari nella poesia elegiaca non sarà così complesso e pervasivo: inoltre, il poeta-innamorato non avrà più con i suoi amici letterati la stessa consonanza di canoni artistici e di stile di vita (nella letteratura elegiaca le due cose si equivalgono) che è il collante della ‘società delle lettere’ neoterica.
113 Vd. Riposati 1967 2 , 105 .
114 Per parte propria La Penna 1986, 116 ha segnalato l’inadeguatezza di un tale stereotipo: “Nella lirica latina da Catullo a Ovidio emerge Roma con i suoi luoghi e la sua vita: a proposito di Catullo, Properzio, Ovidio si può parlare di una scoperta poetica della città. Ne resta estraneo Tibullo; eppure l’ambiente urbano di Roma è presupposto da una parte delle sue elegie: il poeta della campagna ha esercitato nei secoli più fascino e ha prodotto un cliché : ma il cliché è largamente incompleto. D’altra parte la campagna di Tibullo non è meno indeterminata della città; solo da Orazio apprendiamo che si stendeva in regione Pedana . Il suo ‘amico’ Tibullo non ha mai pensato a cercare un simbolo o un mito come quello della villa sabina”.
115 Il noto e sprezzante giudizio di Jacoby sull’elegia di Tibullo, stigmatizzata come giustapposizione di motivi epigrammatici di pura ascendenza letteraria (cfr. Jacoby 1909, 601-632 e 1910, 22-87, posizione ripresa in parte da Fedeli 1986, 331-344 ), evidenziava – seppure in senso negativo – un carattere evidente della tecnica compositiva tibulliana. Se in passato si è fatto ampio uso degli strumenti della critica testuale, cercando di ricostruire testi più lineari e coesi, oggi l’orientamento prevalente tra gli studiosi è di mettere in luce gli studiati passaggi, i complessi rapporti tra le singole sezioni. Un breve saggio di questo tipo di analisi offre La Penna 1986, 89-140 , ma come esempio di studio sull’intera produzione tibulliana particolarmente attento a questioni di struttura si potrebbe citare il lavoro di Ball 1983 . Di fatto, esistono studi sulla struttura di ogni singolo componimento autentico tibulliano: un utile strumento di orientamento, per gli studi precedenti alla sua pubblicazione, è costituito dalla bibliografia ai singoli capitolo del suddetto saggio di Ball 1983.
116 In questa direzione si muoveva ancora per molti aspetti la monografia di Riposati 1967 2 (vd. ad es. a 106-109) , ed anche contributi più specifici come Della Corte 1966, 329-337, o l’introduzione di Ball al suo Critical survey tibulliano (cfr. Ball 1983, 11-12) – davanti ai quali a volte si comprende davvero l’utilità di un approccio ‘di rottura’ come quello di Veyne 1985, 7-25 .
117 L’equilibrio tra georgica e bucolica nei pannelli rurali di Tibullo è stato scandagliato da saggi come Vischer 1965, 143-147 ; Schuster 1930, 66-72 ; Weiden Boyd 1984, 273-280 .
118 In tutte le analisi che seguiranno, prenderemo in considerazione principalmente quella parte del corpus tibulliano reputata originale, senza dimenticare i due componimenti finali del terzo libro (3, 19 e 3, 20), che sono dotati anch’essi di buone probabilità di esserlo. Ai rimanenti carmi del terzo libro sarà comunque riservata attenzione, soprattutto in quanto opera di imitatori – come dire dei primi interpreti dell’opera tibulliana –, ma da qui in avanti le considerazioni che proporremo sulla ‘produzione di Tibullo’ andranno intese alla luce di questa limitazione di fondo.
119 Ancora una volta una citazione emblematica potrebbe essere quella di Jacoby 1909, 72 , che fa di Tibullo “un buon contadino e un valoroso soldato [...]. Tibullo non è diventato un letterato, così come non è mai diventato un cittadino”.
120 Tale contrapposizione conosce, come ha notato Bright 1978, 43-44 , un’articolazione più complessa di quanto appaia a prima vista: se nell’ incipit l’ alius è espressamente connotato come il polo negativo dell’opposizione, un’eguale condanna di Messalla non è affatto ravvisabile ai vv. 49 ss., laddove l’alterità tra due scelte di vita non è marcata in modo meno netto. L’apparente contraddizione è dunque sanabile, a parere dello studioso, solo se si è disposti ad accettare una visione più complessa dei sistemi oppositivi proposti nell’elegia: indirettamente, egli suggerisce ( a 44 ), l’ alius viene ad essere contrapposto allo stesso Messalla, che segue uno stile di vita simile, ma per motivi nobili: “Lo stile di vita attiva sposato per ragioni ignobili era stato rigettato come indegno, al confronto con le ambizioni di Tibullo, ma per parte sua Messalla persegue obiettivi lodevoli e giustificati. Essi, ad ogni modo, non sono fatti per Tibullo” (vd. anche Perrelli 2002, 33-34 , che cita a confronto Prop. 1, 6). Messalla rappresenta dunque l’aspetto positivo del negotium : egli non insegue le ricchezze, ma la gloria (al v. 54 suo solo premio sono le hostiles... exuviae ; cfr. La Penna 1986, 119 ). E in questa seconda parte, come vedremo più avanti, il poeta rientra nel ruolo dell’intellettuale cittadino, inserito nei circoli letterari, che offre al proprio patronus una elegante (ed elogiativa) recusatio , con quanto questa comporta: la scelta del personaggio pubblico è esaltata, ma di quella del poeta si rivendica, seppure con ostentata modestia, l’alterità e insieme la dignità. Per quanto riguarda specificamente il τόπος della vita serena tra i campi insieme all’amata, andrà subito ricordato come Cairns 1979, 17-19 ne abbia individuato le radici ellenistiche, richiamando poi l’attenzione più precisamente ( a 39 ) sull’undicesimo idillio di Teocrito.
121 In Hanslik 1956, 297-303 l’analisi della prima parte dell’elegia, quella ‘georgica’, si trova a 298-301 . In séguito, alla predominanza dei congiuntivi in Tib. 1, 1 fanno riferimento anche Schuster 1930, 68 e, sulla sua scia, Riposati 1967 2 , 110 .
122 Vd. Hanslik 1956, 301-302; Bright 1978, 124-125; Copley 1956, 72-73; Ball 1983, 29-30; Murgatroyd 1991 2 , 48 . La questione specifica del contrasto tra le ambientazioni delle due parti dell’elegia fa parte di quella più generale relativa alla sua struttura, la cui storia risale al giudizio negativo, su di essa come sull’intera tecnica compositiva tibulliana, di Jacoby 1909, 601-632 e 65, 1910, 22-87 . Tra i principali studi successivi sulla struttura di Tib. 1, 1, si potranno citare Reitzenstein 1912, 60-116; Martin 1947, 361-368; Hanslik 1956, 297-303; Fisher 1970, 764-773; Lee 1974, 94-111 (in particolare 103-106), e Ball 1983, 11-35 .
123 Vd. Solmsen 1962, 305 : “Dobbiamo accettare il fatto che molti dei dettagli in entrambe le parti del componimento hanno un significato simbolico, non realistico o autobiografico: non ha senso chiedersi se sia verisimile che l’uomo che di sera riporta all’ovile un agnello perduto passi la notte successiva duras ante fores della sua amante”.
124 Cfr. Hanslik 1956, 302 .
125 Vd. Murgatroyd 1991 2 , 47-48 , inclusa la critica alla posizione di Lee 1974, 94-111 , troppo radicale nel separare l’immaginario rurale e quello erotico in Tib. 1, 1.
126 Quasi inutile specificare che per ‘realtà’ si intende qui un diverso ‘piano di realtà’ all’interno del mondo fittizio della creazione letteraria.
127 Perrelli 2002, 76 sottolinea, dal canto suo, che nella prima sezione di Tib. 1, 1 il trasferimento dell’ io poetico nel mondo dei campi “era ideologico e non condizionato. L’io elegiaco sceglieva quel genere di vita. In questo caso ( scil. in 1, 2, 73-76) la scelta di vita è condizionata alla compagnia di Delia; insomma i due motivi, che nella prima elegia erano tenuti distinti, qui vengono collegati”.
128 Come già precisato, non verranno prese in considerazione nel dossier di questo paragrafo le elegie dal cui fondale coerentemente urbano sia assente alcun cenno alla campagna idealizzata: l’intero ciclo di Marato (Tib, 1, 4; 1, 8 e 1, 9) come quasi tutto quello di Nemesi (2, 3; 2, 4; 2, 6); e ancora Tib. 1, 6; 1, 7; 2, 2; 3, 19; 3, 20. Si potrà trascurare in questa sede il brevissimo cenno al mondo dei campi che compare alla fine di Tib. 1, 7, l’elegia per il compleanno di Messalla (vv. 61-62: il contadino torna a casa dalla città, a sera, lungo la via restaurata da Messalla), in quanto non dotato di carattere ‘soggettivo’, e soprattutto privo di ogni accenno al motivo dell’idealizzazione dei rura .
129 Forte è la suggestione che il trapasso dalla fantasia rurale, delusa, al tentativo inefficace di cercare consolazione nel vino (vv. 37-38: Saepe ego temptavi curas depellere vino, / at dolor in lacrimas verterat omne merum ), possa qui rispecchiare intenzionalmente il passaggio dall’elegia 1, 1, a 1, 2. Peraltro, come nota Perrelli 2002, 174 , le due designazioni del vino che chiudono i vv. 37 e 38 (rispettivamente vinum e merum ) “figuravano già vicine, addirittura a contatto, in 1, 2, 1, Adde merum vinoque novos compesce dolores )”.
130 Tib. 1, 10, 19-20: Tum melius tenuere fidem, cum paupere cultu / stabat in exigua ligneus aede deus . Il tum del v. 19 segna il definitivo stacco del piano temporale.
131 Il codice Bruxellensis indica una lacuna di un solo verso, il che è impossibile, essendo l’ultimo verso precedente (v. 25) un esametro, e il primo successivo (normalmente numerato come 26) un pentametro. Gli altri codici non si esprimono sul numero di versi mancanti: Pontano ne ha aggiunti due, sicché tanti se ne lasciano vuoti nelle moderne edizioni. Cfr. Luck 1988, 41 .
132 Il ruolo ‘semi-divino’ di Messalla in questo componimento è stato sottolineato da Bright 1978, 62-64 all’interno di un’analisi più ampia del suo ruolo nei due libri autentici del corpus Tibullianum . Vd. anche Murgatroyd 1991 2 , 39-40 , con ulteriore bibliografia.
133 Ai vv. 25-26 l’interrogativa alla seconda persona singolare sembra rivolgersi tanto al pubblico ‘interno’ del componimento, ovvero i contadini presenti al rito, quanto al lettore, preparando così già la transizione alla sezione successiva dell’elegia.
134 D’altra parte, a parere di Ball 1983, 153 tutte le azioni di Tibullo in questa sezione dell’elegia costituiscono “attività associate col sacrificio”. Incluso il ‘brindisi’ a Messalla: “E così, suonando sempre più come un magister bibendi , il poeta continua a presiedere la celebrazione del giorno con un tributo gioioso ed accorto al suo benefattore”.
135 Sulle formule sacrali usate da Tibullo, e la loro rispondenza alle pratiche liturgiche romane, Ball 1983, 152 rimanda a Pöstgens 1940, 1-13 . Sulla natura del rito descritto in Tib. 2, 1 si vedano ancora Riposati 1967 2 , 153-156 e Schilling 1980, 73-78.
136 Maltby 2002 (a), 359 rimanda, per la drammatizzazione del rito, al quinto inno di Callimaco, tuttavia per una discussione più completa sul rapporto dell’elegia con gli intertesti di Call. Hymni 2; 5 e 6 e con le Georgiche di Virgilio, nonché sulla sua natura di “mimetisches Gedicht”, si veda Murgatroyd 1991 2 , 17-21 .
137 Il tum incipitario richiama i quadri di vita agreste primigenia delle elegie precedenti, di cui questo costituisce una semplice variazione, centrata sul tema dell’incivilimento. In verità, la discontinuità dei piani discorsivi è marcata chiaramente: l’invocazione a un Messalla ‘semidivino’ (vd. supra , n. 132 ) ai vv. 35-26 ( huc ades aspiraque mihi, dum carmine nostro / redditur agricolis gratia caelitibus ) è solo apparentemente in continuità con quelle precedenti agli dei rustici. A nostro parere, infatti, sarebbe limitante leggervi, come sembra implicare Murgatroyd 1991 2 , 39-40, una semplice invocazione ad una divinità: lo stesso commentatore, infatti, ricorda che in età augustea il verbo aspiro ricorre solo in testi poetici, e riporta esempi di invocazioni alle muse per riceverne ispirazione (un altro esempio in questa stessa accezione è riportato in Maltby 2002 (a), 369 ). Siamo dunque di fronte ad una vera e propria richiesta di ispirazione, all’interno di una sorta di ‘proemio’ alla sezione successiva dell’elegia. Uno stilema ‘proemiale’, caratteristico degli incipit innodici, sarebbe anche il cano che annuncia il soggetto divino (vd. Murgatroyd 1991 2 , e Maltby 2002 (a), 369 ).
138 Cfr. Maltby 2002 (a), 378 e Novara 1989, 2-10.
139 Il contesto urbano del quadro è indubitabile. Il contrasto tra l’amore ‘placido’ e quello reso tormentati dal doctus Cupido , ‘elegiaco’, è espresso infatti in termini temporali e spaziali insieme: passato vs. presente e campi vs. città. Emblematica è la coppia avverbiale presente ai vv. 69-70, già richiamata in precedenza: se illic è un avverbio essenzialmente spaziale (che può indicare al massimo una circostanza astratta, ma mai propriamente il tempo – cfr. OLD, s.v. ), il nunc ad esso coordinato è invece schiettamente temporale. Nello schizzo della vicenda amorosa ‘urbana’ compaiono, oltre alla perdita delle ricchezze (v. 74), il παρακλαυσίθυρον (vv. 74-75) e l’inganno al custode da parte della fanciulla che sgattaiola per le vie della città (vv. 75-78).
140 Vd. McKeown 1989, 149; Murgatroyd 1991 2 , 58; Maltby 2002 (a), 379 .
141 Cfr. Maltby 2002 (a), 379 .
142 Eccone il testo: Ars bona, sed postquam sumpsit sibi tela Cupido, / heu heu quam multis ars dedit ista malum! / et mihi praecipue: iaceo cum saucius annum / et faveo morbo, cum iuvat ipse dolor, / usque cano Nemesim, sine qua versus mihi nullus / verba potest iustos aut reperire pedes . All’interno del corpus tibulliano esiste un’altra occorrenza di ei mihi , (Ps.-Tib. 3, 6, 33), ma per il nostro discorso abbiamo giudicato rilevanti solo le attestazioni del Tibullo autentico.
143 Più prudentemente si esprime al riguardo Murgatroyd, 1991 2 , 58, che però suggerisce comunque la stessa lettura: “Non è possibile dire se ci sia, latente, un particolare riferimento personale (ad es. a Nemesi) qui ( scil. v. 70) nel pentametro (o in 79 s.). I lettori possono bene sospettare una tale allusione, e Tibullo può star tentando di intrigarli”.
144 Particolarmente interessante è tra l’altro la consonanza tra l’ et mihi che apre qui il v. 109, e l’ ei mihi di Tib. 2, 1, 70, in identica posizione e in un uguale contesto di lamento. Cfr. Murgatroyd 1991 2 , 227-228 .
145 Si è anche accennato al fatto che i rura possono conoscere una rappresentazione in termini ‘realistici’ e sostanzialmente ostili (si veda soprattutto 2, 3).
146 Subito dopo la parentesi relativa al regno di Saturno (Tib. 1, 3, 35-48) è, ai vv. 49-50, la duplice anafora di nunc a creare il forte dualismo passato/presente, e al v. 51 torna l’individualità della voce poetica ( non me periuria terrent ).
147 Pure in Tib. 1, 5 il duro rientro sul piano della realtà è marcato da nunc (v. 35): l’altrove spaziale è spesso anche un altrove temporale. D’altra parte l’impiego del pronome ego al v. 37, abbastanza pleonastico, ha l’effetto di rafforzare, per così dire, l’ancoraggio della voce narrante alla persona poetica ‘urbana’, subito dopo l’ulteriore menzione della fuga in un’altra realtà.
148 Più complessa appare la struttura dei pronomi personali e dei deittici temporali in Tib. 1, 10. La già menzionata contrapposizione, in posizione anaforica, di tunc (v. 11) e nunc (v. 13) è ancora una volta il segno linguistico più evidente usato nel raffrontare due piani della rappresentazione, dopo la prima comparsa del tema dei campi all’interno dell’elegia (vv. 7-10); ma per un’analisi più completa non mi resta che rimandare a quella già proposta supra .
149 La persona dell’amante urbano è introdotta anche qui (v. 109) tramite la ricorrenza del pronome personale di prima persona in prima sede di verso: cfr. Tib. 2, 5, 109: Et mihi praecipue ~ 1, 1, 55: Me retinent vinctum formosae vincla puellae ~ 2, 1, 70: Ei mihi , quam doctas nunc habet ille manus!
150 Sulla poesia tibulliana come poesia dell’evasione ha scritto pagine incisive La Penna 1986, 128-131 .
151 Un intertesto basilare per questo aspetto delle simbologie spaziali tibulliane è costituito, secondo noi, dalla decima ecloga di Virgilio: ad essa sarà dedicato il paragrafo 3.2.6 del presente lavoro.
152 Naturalmente, sull’importanza del tema del παρακλαυσίθυρον nella poesia Tibulliana il punto di partenza è comunque lo studo di Copley 1956, 91-112 . Ma si veda anche Delibes 1990, 14-15 , che ponte l’accento sull’assenza, nell’età dell’oro sognata in Tib. 1, 3, 35-47, delle fores e addirittura di lapides per marcare i confini dei terreni.
153 Entrambi i quadretti, peraltro, non sono privi di tratti topici dell’elegia romana: la puella sostanzialmente accetta dei dona pastorali dal progenitore dei divites amatores (cfr. Ball 1975, 38 ; Bright 1978, 83 e Murgatroyd 1991 2 , 190 , che parla di “gentle humour”), mentre lo iuvenis intreccia rixae violente con la sua donna, con presumibile successiva riconciliazione (vd. Tib. 1, 6, 73-74 e, in contesti simili, 1, 3, 63-64; 1, 10, 53-66).
154 Di Tib. 1, 10, 53-66, in cui pure il tema erotico fa la sua comparsa nello scenario agreste, ci occuperemo a suo luogo (vd. infra , 3.2.4), perché la struttura delle simbologie spaziali di tale elegia si regge su una diversa dualità spaziale rispetto a quella (città/campagna) esaminata fin qui: lì sarà infatti lo spazio della guerra a giocare il ruolo di controparte rispetto a quello rurale.
155 Vd. Putnam 1973, 54 , per il quale: “ Longae viae : un eufemismo tibulliano comune per i viaggi, specialmente per fini militari o commerciali (come in 1, 3, 36; 1, 4, 41; 1, 9, 16; 2, 6, 3). La parola via implica le nozioni di separazione, insicurezza, desiderio ecc.; comune in tutta la poesia, e costante nell’elegia”.
156 Sulla possibile prevalenza, all’interno della generica metafora delle longae viae , dell’aspetto militare, rimandiamo alla nota precedente.
157 Vd. Putnam 1973, 54 : “Tibullo non si è sempre accontentato (o è stato costretto) a vivere nelle ristrettezze, e le sue imprese militari sono sintomatiche dell’ambizione che egli sta superficialmente deprecando. Certamente c’è una connessione indiretta tra il passato comportamento di Tibullo e i suoi precedenti possedimenti in un’era più felice. L’esortazione contenuta in possim è un riflesso di un effettivo desiderio, o una forma restrittiva di self-control ?”. Interessante è qui senz’altro il malizioso suggerimento che un Tibullo ‘avido’ si esorti a rigettare la propria stessa tendenza a diventare l’ alius tanto deprecato, ma una certa tendenza al biografismo porta lo studioso ad espungere dal ‘presente’ di Tibullo le campagne militari e a collocarle nel passato, il che non trova alcuna conferma nel testo. Più indeciso appare, a sua volta, Della Corte 1989, 128 : “il poeta vorrebbe essere così saggio da vivere con poco e rinunciare al miraggio delle ricchezze (v. 1); inutilmente ha tentato di procurarsele con i viaggi delle spedizioni militari (cfr. Ovidio, Am. I 9,9: militis officium longa est via , «dovere del militare è il lungo viaggio»), che lo costringono a stare lontano dalla sua terra. L’elegia è stata scritta quando ancora Tibullo prestava servizio militare (R. Hanslik, Tibull I 1 [...])”. Non appare infatti chiaro se le spedizioni appartengano ai trascorsi di Tibullo, o ancora al suo presente.
158 Cfr. Hanslik 1956, 299-300 .
159 Murgatroyd 1991 2 , 47-48.
160 Cfr. Murgatroyd 1991 2 , 47 .
161 Vd. Smith 1913, 198 . Cfr. anche Della Corte 1989, 131 : “Verso riecheggiato in II 4,27: O pereat quicumque legit viridesque smaragdos . Gli smeraldi provenivano dalla Scizia, dalla Battriana e dall’Egitto. Il viaggio, che Tibullo (I 7,21-48) si proponeva di fare in Egitto, avrebbe potuto procurargli oro, o ancor meglio ( potiusque ) smeraldi”.
162 Cfr. supra , n. 120.
163 Vd. Perrelli 2002, 33 ad vv. 49-50 : “La contrapposizione tra l’io elegiaco e l’ alius si esprime attraverso l’opposizione interno-esterno”, e già prima, a 30 ( ad vv. 45-48) : “I due distici sono costruiti ciascuno su un’antitesi. Celebrano i piaceri ‘borghesi’ degli interni di una casa e li oppongono ai disagi del ‘fuori’. La collocazione della scena all’interno di una camera da letto rende ancora più esplicito il carattere di ‘antimondo’ della scelta di vita dell’io elegiaco”.
164 Cfr. Perrelli 2002, 22-23.
165 Sulla connessione così frequente in Tibullo tra brama di ricchezze e guerra, e sulle sue ascendenze diatribiche vd. La Penna 1956, 118-119 .
166 In tutta la sezione ‘campestre’ di Tib. 1, 1, sono molti i segnali che rinviano ad uno spazio ‘interno’ e rassicurante, ad una dimensione ‘minima’ evidentemente opposta alla realtà del viaggio: vv. 5-6: me mea paupertas vita traducat inerti, / dum meus adsiduo luceat igne focus ; vv. 19-22: vos quoque, felicis quondam, nunc pauperis agri / custodes, fertis munera vestra, Lares. / Tunc vitula innumeros lustrabat caesa iuvencos, / nunc agna exigui est hostia parva soli e vv. 25-28: iam modo iam possim contentus vivere parvo / nec semper longae deditus esse viae, / sed Canis aestivos ortus vitare sub umbra / arboris ad rivos praetereuntis aquae ; vv. 33: exiguo pecori ; vv. 43-48: parva seges satis est, satis requiescere lecto / si licet et solito membra levare toro . / Quam iuvat inmites ventos audire cubantem / et dominam tenero continuisse sinu / aut, gelidas hibernus aquas cum fuderit Auster, / securum somnos igne iuvante sequi . Il tema della pioggia costituisce in quest’ultimo passaggio un sotterraneo trait d’union (per opposizione) con la successiva figura dell’avido viaggiatore che, pochi versi più avanti (vv. 49-50) è disposto a sfidare il furore del mare e le tristes... pluvias . Cfr. Putnam 1973, 54 : “La tensione tra movimento e quiete, tra il ricercare e il trattenersi, ha la sua controparte spirituale nel motivo precedente della soddisfazione vs. avidità [...]. Il poeta, contento di poco, desidera essere ‘contenuto’ dalla limitante ombra di un albero”, e più avanti, a 57 ( ad vv. 47-48): “L’acqua è un secondo simbolo di instabilità (vd. v. 28). La caratteristica aggiuntiva qui è la freddezza. La casa offre protezione dal vento, dalla pioggia, e dal gelo invernale”.
167 L’opinone di Oltramare 1926, 200-201 sull’origine dei temi di chiara ascendenza diatribica in Tibullo è che essi siano arrivati a lui tramite Orazio e Virgilio. Cfr. inoltre La Penna 1986, 118 .
168 La complessa costruzione dei vv. 73-74 sembra accumulare e concatenare i segnali che rimandano alla unione d’azione dei due innamorati ( ipse... mea... tecum... Delia ), e non sarà troppo azzardato pensare che la stessa azione del boves... iungere rimandi alla topica dello iungere amores . Quest’ultima trova peraltro un rispecchiamento già al verso successivo ( et te... teneris retinere lacertis ), il quale sembra voler rendere anche fonosimbolicamente lo stretto abbraccio tramite la ricercata allitterazione in t ed r (sugli effetti fonici del verso, vd. ancora Perrelli 2002, 77 ).
169 I primi studi a porre la questione sono stati quelli di Eisenberger 1960, 188-197; Bright 1971, 197-214 (ripubblicato, con modifiche, in Id. 1978, 16-37 ) e Ball 1971, 62-86 . Su di essa sono tornati poi in vario modo Wimmel 1968, 174-240 , più cauto dei suddetti; Mills 1974, 226-233 , che invece vede la Feacia e le sue risonanze odissiache come l’elemento unificante dell’intera elegia; Ball 1983, 50-65, in particolare a 63-65 , il quale prende in considerazione le riprese del tema odissiaco anche negli altri augustei. Un approccio pià prudente sembra caratterizzare la bibliografia più recente: Levin 1983, 2020-2033 , una equilibrata riconsiderazione critica dell’‘ipotesi odissiaca’; la breve nota di La Penna 1986, 111 n. 36 ; Pieri 1988, 98-111 e Morelli 1991, 175-176 , tutti molto critici nei confronti dell’ipotesi così come essa era stata formulata dai suoi primi propositori.
170 Sulla complessa struttura del componimento andranno citati almeno Eisenberger 1960, 188-197; il puntuale saggio di Hanslik 1970, 138-145, e il capitolo relativo nella monografia di Ball (cfr. Ball 1983, 50-65).
171 Cfr. Tib. 1, 1, 51-52: O quantum est auri pereat potiusque smaragdi, / quam fleat ob nostras ulla puella vias .
172 Sulla funzione di Iside, dea ‘straniera’, all’interno di questo componimento, e sull’atteggiamento leggermente contraddittorio di Tibullo verso di essa, vd. Wimmel 1968, 204, il quale attribuisce alla dea un ruolo importante nel’intera elegia, e Ball 1983, 53, per cui l’invocazione ad essa “mostra un momento temporaneo, ma chiaro, di confidenza nel culto di una dea straniera”; contra , vd. Mills 1974, 228 ; Pieri 1988, 104 ; Morelli 1991, 181-183 e n. 28 .
173 Vd. Eisenberger 1960, 191 e Bright 1978, 21 e n. 18 .
174 Per esprimere l’idea della navigazione nei termini di un sacrilegio (i pini, legati all’elemento terrestre, fanno violenza – letteralmente ‘disprezzano’ – il mare), viene richiamato un intertesto prestigioso e notissimo: l’ incipit del carme 64 di Catullo, che a sua volta rimaneggiava materiale acciano (vd. Traina 1986 2 , 131-158 ).
175 Non direttamente collegata al tema del viaggio è un’altra assenza non meno significativa: come ha notato in modo penetrante Delibes 1990, 14-15 (vd. supra, n. 152), questo è un mondo privo di barriere: le case non hanno fores , e neppure i campi lapides che li delimitino. Viene negata in partenza, dunque, la possibilità di quella fondamentale ‘metafora spaziale’ della situazione esistenziale dell’amante elegiaco che è il παρακλαυσίθυρον (vd. Copley 1956, 71-90 sugli elegiaci in generale, e 91-112 su Tibullo; Delibes 1990, 10-11 e 14-15 ).
176 Vd. supra , n. 153.
177 Cfr. Cilliers 1974, 75-79 .
178 Vd. Tib. 1, 3, 1: Ibitis Aegaeas sine me, Messalla, per undas (il viaggio della persona elegiaca); vv. 37-40: Nondum caeruleas pinus contempserat undas , / effusum ventis praebueratque sinum, / nec vagus ignotis repetens conpendia terris / presserat externa navita merce ratem (l’assenza di navigazione nell’età di Saturno); v. 50: nunc mare (la presenza di essa in quella di Giove); v. 56 Messallam terra dum sequiturque mari (nell’epigramma funerario di Tibullo).
179 Vd. Hanslik 1970, 145 .
180 Si ricordava supra (paragrafo 3.2.3) come, dopo il naufragio in Tib. 1, 5 della prospettiva di un trasferimento in campagna della liaison tra l’ io elegiaco e la domina , nelle elegie tibulliane successive i due personaggi insieme non si ritroverann o più a condividere, da amanti, quello spazio. Anche qui, come già anticipato (Tib. 1, 10, 53-66; vd. supra , n. 153 ), il motivo amoroso fa la sua comparsa nel contesto agreste, tuttavia sia il personaggio di Tibullo sia quello della domina elegiaca sono assenti da tale rappresentazione; né potrebbe essere altrimenti, considerato che in 1, 10 l’amore non fa la sua comparsa neanche sul piano della ‘realtà’ dell’ io poetico.
181 Potremmo ancora ricordare come i tratti ricorrenti che avevamo individuato nella descrizione del Tartaro in Tib. 1, 3, 67-83 ritornano nell’oltretomba di Tib. 1, 10, 35-38: oltre alla figura di Cerbero, un preciso punto di contatto è costituito dalla folla vagante (Tib. 1, 3, 86: Huc illuc inpia turba fugit ~ 1, 10, 37-38: Illic... / errat... pallida turba ), né mancano l’oscurità (v. 38: obscuros ) e la presenza dell’elemento acquatico (v. 36: Stygiae navita turpis aquae e v. 38: Ad obscuros... lacus – cfr. il breve schizzo dell’oltretomba in Tib. 2, 6, 40: Venit ad infernos sanguinolenta lacus ).
182 In Tib. 1, 10, 7-10, il primo abbozzo del mondo rupestre è realizzato per ‘sottrazione’ di elementi bellici ( nec bella fuerunt ... non arces, non vallus erat ). Più avanti sarà il sogno campestre a generare a sua volta il proprio doppio negativo – lo spazio della morte (vv. 35-38) intimamente legato a quello bellico – attraverso il rovesciamento dei caratteri della campagna ( non seges est infra, non vinea culta ).
183 Vd. Bright 1978, 77 .
184 Cfr. Id. 1978, 77-89 . Sul dualismo tra la dimensione bucolica e quella storico-mitica, vanno consultati anche Ball 1983, 198; Méthy 2000, 79-80; Maltby 2002 (b), 297 . Non torneremo qui sulla vexata quaestio dei rapporti tra Tib. 2, 5 e l’ Eneide (in particolare il libro ottavo): le diverse opinioni espresse nei saggi fondamentali al riguardo non inficiano nella sostanza l’impostazione della presente analisi, incentrata sul dualismo spaziale di cui sopra. Un orientamento bibliografico su questo aspetto è fornito da Ball 1983, 185-217 (vd. in particolare 185 n. 2), cui si potranno aggiungere Ball 1975, 33-50; Della Corte 1984, 247-253; McGann 1984, 869-875 (su una versione non-virgiliana di un aspetto della guerra per il Lazio); Rothwell 1996, 829-854 (che include nel confronto passi di Properzio, Tibullo e Virgilio sulla ‘Roma prima di Roma’); Maltby 2002 (b), 291-304 .
185 Cfr. Bright 1978, 86 .
186 Vd. Merklin 1970, 312 e, contra , Bright 1978, 80 . Di un’intenzione anti-augustea parla Ball 1975, 37 a proposito della scena delle vacche che pascolano sul Palatino, e più estesamente a 45-46 prendendo spunto dal ‘silenzio’ su Augusto nel corpo dell’intera elegia.
187 Sulla struttura dell’elegia, e sul ritorno dell’età dell’oro anche in relazione all’intertesto costituito dalla quarta bucolica virgiliana, resta fondamentale Wimmel 1961, 227-266 . Sulle implicazioni negative della iunctura ‘ longa via ’ vd. poi Bright 1978, 64 .
188 L’ascendenza comune di questi passaggi, particolarmente evidente in quello di Tib. 2, 6, è naturalmente Verg. Buc. 10, 22-23: … tua cura Lycoris / perque nives alium perque horrida castra secuta est . Da un’analisi sul database PHI 5 risulta come castra sequi (nelle varie forme coniugate del verbo) non sia affatto espressione tecnica del linguaggio militare per ‘recarsi in una campagna millitare’: le sue uniche occorrenze in prosa sembrano essere due passaggi delle vitae di Cornelio Nepote (1, 2, 3 e 7, 2, 2), uno nelle Controversiae di Seneca il Vecchio (4, 8, 8) ed uno nelle Epistulae ad Lucilium di Seneca il Giovane (4, 10, 8) – in entrambi questi ultimi passi sono accostati, anche se distinti, i viaggi transmarini e il servizio militare. Le rimanenti occorrenze sono elegiache (oltre al già citato Tib. 2, 6, 1 si registrano Prop. 2, 10, 19 e Ov. Am. 3, 8, 26) o comunque poetiche e post-virgiliane: Ovidio Ep. ex Pont. 2, 2, 11; Met. 5, 128; Lucano Bellum civile 2, 348; 2, 519; 7, 831; 9, 379; Valerio Flacco Arg. 6, 2; Giovenale Sat. 4, 135. Dell’influsso della decima ecloga virgiliana sulle simbologie spaziali di Tibullo ci occuperemo specificamente nel paragrafo 3.2.6. Interessante, per l’interpretazione generale di Tib. 2, 6, la proposta di Reeve 1984, 235-239, il quale ha suggerito che il componimento sia incompleto: la morte avrebbe colto l’autore prima che questi abbia potuto completarlo.
189 Cfr. v. 38: Mors propiorque venit e i già citati Tib. 1, 3, 50: Nunc mare, nunc leti mille repente viae ; 1, 10, 4: T:um brevior dirae mortis aperta via est e soprattutto 33-34: Quis furor est atram bellis accersere mortem? / inminet et tacito clam venit illa pede .
190 Cfr. La Penna 1986, 95-96 : “In particolare 2,3 è il rovesciamento quasi sistematico dei miti tibulliani: la vita tranquilla della campagna, l’esaltazione dell’agricoltura, la condanna del lusso ora accettato con amara rassegnazione, l’età dell’oro, nella rievocazione della quale vengono recuperati tratti lucreziani. Ci si metterebbe fuori strada cercando in questo rovesciamento i segni di una crisi morale o anche solo letteraria: il rovesciamento è un lusus e l’ironia trova buoni agganci in elegie precedenti”.
191 Sarebbe limitante pensare che questo diverso atteggiamento, non ‘totalizzante’, verso l’esperienza amorosa sia un semplice un portato della ‘asimmetria sentimentale’ insita nell’amore pederastico: di fronte ad un’elegia come Tib. 1, 8, che mostra un Tibullo disposto a tollerare ed anzi favorire l’amore del suo Marato con la fanciulla Foloe, troviamo infatti anche l’invettiva di Tib. 1, 9 contro l’amasio traditore (ma con un altro uomo). E lo stesso finale di Tib. 1, 4 (vv. 81-85) sta a dimostrare come anche all’interno dell’amore pederastico l’uomo possa ritrovarsi inerte, privo cioè delle artes e dei doli , indifeso di fronte ai rischi della passione.
192 La rappresentazione dei movimenti dell’amante al di fuori dell’usuale spazio urbano contiene le ormai note connotazioni negative: immancabile, si profila subito in Tib. 1, 4, 41 la longa via ( Neu comes ire neges, quamvis via longa paretur ), seguita dalle più tremende congiunture meteorologiche (vv. 41-44), dal viaggio per mare (vv. 45-46), e anche dai labores che il rimando intratestuale a Tib. 2, 3 sembra connotare in senso agricolo (Tib. 1, 4, 47-48: Nec te paeniteat duros subiisse labores / aut opera insuetas adteruisse manus ~ 2, 3, 9-10: Nec quererer, quod sol graciles exureret artus, / laederet et teneras pussula rupta manus ). Chiudono il quadro la caccia, praticata ovviamente nelle valles , luogo, neanche a dirlo, extra-urbano, e la pratica delle armi, con le sue implicite risonanze belliche. Cfr. Monella 2005, 125-139.
193 La Penna 1986, 129-130 individua nel fascino delle religioni antiche o recenti (ovvero esotiche, di provenienza orientale) una delle mete dell’evasione tibulliana, e annota (a 130) come “l’Aquitania ha ispirato a Tibullo solo un arido elenco geografico, l’oriente, invece, i suoi quadri più grandiosi e affascinanti”.
194 Vd. Conte 1980, 11-43 .
195 Cfr. Id. 1980, 22 .
196 Vd. Id. 1980, 2 3.
197 Cfr. Id. 1980, 24-26 .
198Vd. La Penna 1977, 176-191.
199 Si tratta rispettivamente di La Penna 1977, 176-191 (il titolo del capitolo è Scoperta poetica della città e dintorni ), e di Scivoletto 1981, 27-38 .
200 Vd. La Penna 1977, 179 , il quale annota, proprio a proposito della nota descrizione del tempio di Apollo Palatino in Prop. 2, 31: “È notevole che solo l’aspetto artistico del complesso monumentale interessa qui il poeta, non ancora in contatto con Mecenate e il suo circolo”. E, più avanti ( a 179-180 ): “Benché si ricordi all’inizio che il monumento si deve all’imperatore, il magnus Caesar , le connessioni del complesso monumentale e dei singoli elementi con la religione e l’ideologia augustea non emergono. [...] Il complesso monumentale è per lui solo un ornamento della città che si avvia a nuovo splendore: probabilmente è per questo che l’ ἔκφρασις del tempio di Apollo Palatino è collocata accanto a II 32, l’elegia che celebra la bellezza della città ellenistico-latina”.
201 Vd. in particolare La Penna 1977, 181-182 .
202 Cfr. Scivoletto 1981, 31 . In particolare, a 29-30 lo studioso legge dietro la descrizione del tempio di Apollo Palatino in Prop. 2, 31 e delle altre meraviglie del centro monumentale in Prop. 2, 32 un disinteresse non solo ‘ideologico’, come suggeriva La Penna, ma sostanziale: l’ ἔκφρασις di 2, 31 è definita addirittura “molto stilizzata” e freddamente “fotografica”.
203 Scivoletto 1981, 37.
204 Scivoletto 1981, 36.
205 Anche Fantham 1997, 122-135 concepisce un Properzio indifferente ai grandiosi rinnovamenti urbanistici augustei, ma per parte sua nota una qualche nostalgia verso i monumenti, e dunque verso il mondo, della Roma repubblicana.
206 Oltre agli studi citati, vanno ricordati almeno Krókowski 1948-1949, 167-185 ; e Lieberg 2002, 433-448 .
207 Il realismo è, come è noto, una delle chiavi di lettura proposte da La Penna 1977, 93-100 per le elegie erotiche del quarto libro (vd. a 96-97 in particolare su Prop. 4, 8). Sulla figura di Cinzia tra realismo e trasfigurazione, vd. la discussione di Dimundo 1990, 23-26 .
208 Le citazioni sono tratte rispettivamente da Scivoletto 1981, 27-28 e 30 .
209 Cfr. La Penna 1977, 97-99 . Sulla Suburra e la sua malfamata vita notturna, cfr. Fedeli 1965, 191 .
210 La natura ‘popolare’ della via Sacra emerge anche in Ov. Am. 1, 8, 100, dove la lena consiglia alle aspiranti mantenute di comprarvi da sole oggetti, che saranno poi spacciati ai propri amanti per doni di inesistenti rivali (cfr. McKeown 1989, 251 ad Ov. Am. 1, 8, 100) ; o in Ov. Ars amatoria 2, 266 (vd. Janka 1997, 222 ) in cui è l’uomo a spacciare per prelibatezze giunte da poderi suburbani doni comprati sulla via Sacra. Nessun riscontro è possibile citare in Tibullo, notoriamente più parco di Realien topografici.
211 Cfr. Fedeli 2005, 70-71 . Anche nell’itinerario per le vie di Roma che all’inizio del terzo libro dei Tristia percorre il libro stesso, cercando un luogo dove risiedere in città, la via Sacra è citata insieme ad altri luoghi dall’indubitabile pregnanza ideologica, legati alla dimensione pubblica ed alla stessa storia di Roma (vd. Ov. Trist. 3, 1, 27 ss.).
212 Nella prima parte del componimento (Prop. 3, 4, 1-10) ad Augusto e ai suoi soldati è rivolta l’esortazione ad intraprendere la campagna militare (v. 7 ite agite... date ; 8 ducite ; 9 piate ; 10 consulite ), mentre l’unica comparsa in questa sezione dell’ io poetico, alla prima persona e al modo indicativo, ne marca il ruolo ‘esterno’ di cantore: v. 9 cano . Nel quadro del futuro trionfo augurato (v. 12 precor ; ma poi, come sappiamo, mai realizzatosi) il posizionamento della persona poetica, espresso naturalmente attraverso congiuntivi ottativi, rimane comunque esterno: 13 videam ; 15-16 spectare... incipiam ; 16 oppida capta legam .
213 Questa trasformazione dei cittadini da πολίται a sudditi, da attori a spettatori della politica e della storia, richiama alla mente l’ovvio precedente storico dell’età ellenistica, e particolarmente interessante al riguardo può apparire il parallelo letterario costituito dal secondo idillio di Teocrito, le Siracusane , con il suo peculiare gusto realistico e sottilmente straniante nel rappresentare da questo punto di osservazione i luoghi e le cerimonie del potere. Vd. supra , paragrafo 1.1.4 La città ellenistica .
214 L’ironia e la “frivole Tonlage” che affiora in più punti, soprattutto nella prima parte dell’elegia, sono state messe in evidenza soprattutto da Lefèvre 1966, 65-71 e riaffermate da Fedeli 2005, 472-474 , al cui commento rinvio per una documentata rassegna sulle fonti comiche ed elegiache del componimento.
215 Ancora a proposito dei teatri come luogo di ‘caccia’ amorosa, si potrebbero citare numerosi paralleli ovidiani (ma nessuno tibulliano): vd. Ov. Amores 2, 2, 26; 2, 7, 3; e naturalmente Ars amatoria 1, 89-90 ( Sed tu praecipue curvis venare theatris: / haec loca sunt voto fertiliora tuo ); 1, 497; 3, 394; 3, 633; Remedia amoris 751; Tristia 2, 1, 279-282. Nell’ Ars ovidiana persino il ratto delle Sabine è collocato in un rudimentale teatro (vd. 1, 103), e diventa, nella arguta pointe finale, αἴτιον della ‘pericolosità’ di questo luogo per le fanciulle (1, 133-134: Scilicet ex illo sollemnia more theatra / nunc quoque formosis insidiosa manent ; vd. Labate 2003, 221-245 e Landolfi 2005, in corso di pubblicazione). Nell’interpretazione del ruolo del teatro in questo controverso passaggio risiede la differenza sostanziale tra la mia interpretazione e quella di Fedeli 2005, 492-494, il quale è contrario ad inserire la cura theatri tra i remedia amoris , come ho sostanzialmente suggerito sopra, e cita al riguardo, oltre al monito di Cinzia in Prop. 4, 8, 77 (di cui ci occuperemo a breve), l’analogo consiglio di non indulgere theatris in Ov. Rem. am. 750-751. Il punto centrale della mia argomentazione, qui e nel prosieguo del presente capitolo, risiede nel fatto che l’amore legato alla vita galante della capitale (e presente in trasparenza dietro la cura theatri di Prop. 2, 16, 33) non sia realmente interno all’etica erotica elegiaca, ma anzi costituisca per essa una continua minaccia di disgregazione, nella prospettiva del tradimento. In Prop. 4, 8, 77, come vedremo, Cinzia vieta all’amante fedifrago di frequentare il teatro proprio al fine di tutelare la fides tra gli amanti (almeno da parte di Properzio), collocando così il luogo principe del corteggiamento cittadino al di fuori dell’ ethos elegiaco. Dei Remedia amoris ovidiani ci occuperemo in conclusione del capitolo ovidiano del presente studio – ma sin d’ora andrà anticipato che l’identificazione ovidiana tra amore elegiaco e vita galante, operante già negli Amores e trionfante nell’ Ars amatoria , crea una cornice ben diversa per il passaggio citato dei Remedia : se nella prospettiva dell’ eros totalizzante che caratterizza la poesia properziana il teatro può comparire come emblema di un’esperienza amorosa alternativa a quella elegiaca, dopo l’esperienza del doctus amator dell’ Ars ovidiana il maestro dei Remedia amoris , nel suo rifiuto globale dell’esperienza amorosa, non opererà più distinzioni tra l’amore ‘assolutizzante’ di pura ascendenza elegiaca e gli approcci che un giovane romano può iniziare (come nella notissima Ov. Am. 3, 1) sugli spalti di un teatro.
216 Vd. Enk 1962, 240 , il quale porta a riscontro Strabone, Geographia 5, 3, 8, una descrizione del Campo dal punto di vista delle decorazioni ma soprattutto delle attività (incluse quelle ippiche) che l’ampiezza del luogo permetteva, e Orazio, Carmina 1, 8, 3-4, in cui esso è al primo posto in una lista di ‘sane’ attività che erano proprie di Sibari, un giovane sportivo, prima che l’amore di una Lidia lo ‘guastasse’. Cfr. ora Fedeli 2005, 492-493 .
217 Il terzo dei piaceri rifiutati dall’innamorato dolente, la mensa (probabilmente nel semplice senso di ‘cibo’) è parso talmente inappropriato in questo contesto ad Hosius da indurlo a correggere il testo in musa (il piacere del comporre versi): la lezione non è esclusa da Butler-Barber 1933, 219 , ma si veda la difesa del testo tràdito da parte di Shackleton Bailey 1956, 96 ; Enk 1962, 241 e Fedeli 2005, 493-494 , laddove gli ultimi due studiosi confutano anche l’interpretazione di mensa come ‘tavolo da gioco’ da parte di Luck 1958, 126-127 .
218 Vd. supra , paragrafo 2.2 La città come sfondo della creazione letteraria .
219 Cfr. Wiseman 1980, 13-16 , che lo identifica con un Campus Martialis sul Celio.
220 Tanto sui diversi Campi di Roma, quanto sulle varie porticus , vd. Enk 1962, 301 e Fedeli 2005, 664 .
221 A confermare che la frequentazione degli ambienti mondani è funzionale ad un’aspirazione di emancipazione dalla servitù amorosa basta prendere in considerazione il contesto immediato: i citati versi di Prop. 2, 16, 31-32, in cui si immagina un divorzio tra Properzio, identificato col proprio stesso dolor , e la donna, ridotta ai suoi vitia (vd. Enk 1962, 240 e Fedeli 2005, 491-492 ), e i vv. 35 ss. della stessa elegia, in cui un’anonima voce esterna (incarnante il ruolo normalmente attribuito all’amico dedicatario) rimprovera l’amante, e questi ammette il suo turpis amor e lo paragona addirittura all’infame passione di Antonio per Cleopatra (cfr. Fedeli 2005, 473 e 494-497 ).
222 Così Enk 1962, 284 introduce il componimento: “Inde ab hac elegia novus incipit cyclus (22. 23. 24) in quo poeta demonstrare vult se Cynthiae servitio liberum esse”. Sul mutamento dell’atteggiamento da parte del poeta-innamorato, cfr. Labate 1977, 312. Per parte sua Fedeli 2005, 627-629 , pur riconoscendo il ricorrere in tali componimenti di una disposizione assai diversa da parte dell’ io poetico nei confronti dell’esperienza amorosa, esprime una maggiore prudenza nel parlare di un ‘ciclo’ coerente di elegie, ricordando ( a 628 ) “gli 8 versi di 2,22b, misera reliquia di una più ampia elegia successiva a 2,22a, in cui si ritorna al motivo topico dell’innamorato sospiroso e sofferente per il rifiuto della donna amata”, ed evidenziando ancora che “il tono complessivo del carme [...] lascia affiorare più volte i segni di un atteggiamento gioiosamente ironico anche dove, come nelle formulazioni sentenziose, meno ce lo aspetteremmo”.
223 Boyancé 1972, 291-297 ha spiegato l’accostamento dei crocicchi ( compita ) ai teatri ipotizzando un riferimento diretto ai Ludi compitales organizzati da Augusto nel 29 a.C.: le stesse vie di Roma sarebbero divenute per l’occasione un enorme teatro. La proposta è accolta con entusiasmo da Enk 1962, 285 e 287, ma rifiutata con argomenti pesanti da Fedeli 2005, 633-634.
224 Della topicità dei teatri come luogo di ‘peccato’ contro la fedeltà amorosa, si è già detto: sui fana , si vedano i paralleli proposti da Enk 1962, 264 , cui Butler-Barber 1933, 223 aggiunge un passo di Giovenale (9, 24: nam quo non prostat femina templo? ).
225 Cfr. Fedeli 2005, 894 . Che il locus del v. 7 sia la porticus Pompeia sembra la soluzione più probabile, ma i vv. 1-18 dell’elegia, nel loro complesso, hanno rappresentato per editori ed interpreti un rompicapo. Seguendo la successione dei versi che troviamo nella tradizione, infatti, la locuzione hoc... loco (v. 7) viene immediatamente dopo la menzione delle escursioni ‘fuori porta’ di Cinzia, e sembra inverosimile che hoc punti ad una di queste destinazioni, dietro cui balena l’ombra del tradimento. Locus potrebbe riferirsi semplicemente a Roma, ma contro questa interpretazione valgono le obiezioni di carattere linguistico sollevate da Enk 1962, 402-403 . A sua volta, Butler-Barber 1933, 249-250 , pur sospettando che il testo sia corrotto, e definendolo ‘oscuro’, non opera interventi (come anche Fedeli 1984 ), mentre altri editori hanno trasposto i vv. 7-8 o 7-10 prima del v. 1 o dopo il v. 16. Le differenti proposte testuali in questo senso sono riportate in Enk 1962, 402 , il quale a sua volta propende per la trasposizione dei vv. 7-10 per intero dopo il v. 16, ed interpreta hoc... loco in relazione al portico di Pompeo. Una soluzione più ‘drastica’ è accettata, di recente, nell’edizione di Goold 1990 : egli ‘fonde’ le elegie 31 e 32 del secondo libro, e colloca i versi in questione (7-10) tra l’ultimo verso dell’elegia 31 e il primo dell’elegia seguente. Ne conseguirebbe che il locus in cui Properzio preferirebbe sapere Cinzia sia il complesso monumentale di Apollo Palatino descritto in Prop. 31, senz’altro meno ‘pericoloso’ della porticus mondana. L’ipotesi era però già stata presa in considerazione, e scartata, da Butler-Barber 1933, 249 : “I manoscritti non segnano la divisione tra questa elegia ( scil. Prop. 2, 32 ) e la precedente. Ma è possibile congiungerle solo riferendo hoc... loco (7) alla porticus Phoebi , e trasferendo 7-8 o 7-10 prima di 1. Ma l’unione è insoddisfacente, dal momento che i due componimenti non hanno nulla in comune”. Contro la trasposizione di versi proposta da Enk, e a favore del mantenimento della separazione tra 2, 31 e 2, 32 vd. andesso anche Fedeli 2005, 887-888 e 894 .
226 Vd. supra , n. 215 . Come ricordano Enk 1962, 102-1 0 3 , e Alfonsi 1981, 84-85 , si trattava di argomenti sfruttati dalla propaganda antiromana le cui tracce ci restano in storici come Giustino. Weiden 1980, 108-110 , prendendo in considerazione proprio questa invettiva contro la ‘corruzione’ di Roma in Prop. 2, 6, suggerisce che tra la pubblicazione dei libri secondo e terzo di Properzio il poeta, stimolato dall’uscita dei primi tre libri dei Carmina di Orazio e dalla nuova temperie culturale augustea, abbia mutato atteggiamento verso la città di Roma, la quale appunto nel secondo libro può ancora apparire come sede di corruzione, mentre negli ultimi due libri della raccolta costituirà esclusivamente la sede di quella pudicitia che era stata estranea a Cinzia. Alla manifestazione da parte di Properzio di un atteggiamento ostile verso la restaurazione augustea aveva pensato anche Paratore 1986, 75-94 , ma una giusta prudenza nei confronti di tale interpretazione è raccomandata ora da Fedeli 2005, 207 .
227 Inutile ricordare la significatività della porta, dal punto di vista antropologico, nella mentalità romana: lo stesso Copley 1956, 121-123 ricorda ( a 121 ) come uno dei contributi properziani al tema del παρακλαυσίθυρον , la personificazione della porta, sia “di schietta natura romana”, in quanto essa “per il romano è sempre la guardiana della casa, il simbolo fisico della tradizione familiare e della stabilità”.
228 Si ricordi altresì quanto fortemente sottolineato sia, nella descrizione l’irruzione violenta di Cinzia nella casa di Properzio in 4, 8, l’aspetto dell’appropriazione degli spazi liminali, e sacrali, della casa (vv. 49-50): Cum subito rauci sonuerunt cardine postes , / et levia ad primos murmura facta Laris . Si noti infatti la metonimia Lares per aedes (cfr. Fedeli 1965, 215 ). Per riaffermare il suo possesso completo sulla persona dell’amante, Cinzia infrange innanzitutto le ‘barriere’ simboliche legate alla definizione dello spazio ‘interno’ della domus dell’amante: ristabilendo il suo controllo sul suo spazio, gli nega ogni possibilità di emancipazione anche erotica. Sul nesso limen amare in Prop. 2, 6, 24 cfr. Fedeli 2005, 209 , il quale lo definisce come “una variazione poetica di domum servare ”, e rinvia a Hor. Carm. 1, 25, 3-4.
229 Vd. Prop. 2, 16, 5-6: Nunc sine me plena fiunt convivia mensa, / nunc sine me tota ianua nocte patet , laddove, in connessione con l’arrivo del praetor Illyricus , la casa di Cinzia diventa, nella sua inconsueta ‘apertura’, emblema la sua vita cortigianesca, da cui il solo Properzio è escluso); 2, 20, 23-24: Interea nobis non numquam ianua mollis, / non numquam lecti copia facta tui , in cui ritroviamo i due luoghi della casa simbolicamente più rilevati nell’universo elegiaco: la ianua e il lectus . Nello stesso senso è impiegato fores in Prop. 1, 10, 15-16: Possum ego diversos iterum coniungere amantes, / et dominae tardas possum aperire fores , e limen in 2, 7, 9-10: Aut ego transirem tua limina clausa maritus, / respiciens udis prodita luminibus .
230 Prop. 2, 6, 41-42: Nos uxor numquam, numquam seducet (o deducet ) amica: / semper amica mihi, semper et uxor eris . In questa chiave il distico trova il suo posto, ritengo, anche alla fine dell’elegia 2, 6, nonostante più editori lo traspongano all’elegia successiva (vd. Enk 1962, 111-112 , con dettagliata discussione, che ha proposto di spostare i due versi alla fine dell’elegia 7, e Goold 1990 che pubblica i versi prima di 2, 7, 1; Butler-Barber 1933, 201 , come Fedeli 1984, accettano invece la successione dei versi nei manoscritti).
231 Sul lectus di Ulisse e i suoi precedenti greci vd. Enk 1962, 106 , il quale però interpreta, a mio parere troppo restrittivamente, la locuzione limen amare nel senso di limen servare . Credo che il verbo amare aggiunga comunque a tale visione ‘restrittiva’ del rapporto col limen una connotazione affettiva, che non può non investire l’interezza dello spazio domestico. Cfr. anche Fedeli 2005, 209 .
232 Non sarà necessario riportare un elenco dei passi properziani relativi relativi al contesto comastico, che ho anzi omessi intenzionalmente, in linea di principio, dalla trattazione fin qui svolta: inutile ripercorrere il dossier ampio e ragionato di Copley 1956, 74-82 . Ma vorrei rimandare soprattutto, sempre all’interno del saggio di Copley, all’interessante discussione (a 113-124 ) sulla significatività del παρακλαυσίθυρον come simbolo della stessa esperienza erotica elegiaca in Properzio (relativamente a Prop. 1, 16).
233 Sul motivo dei servi praelucentes vd. Rothstein 1920 2 , 76; Enk 1946, 36 ad 1, 3, 10; Id. 1962, 371 ad 2, 29, 5; Butler-Barber 1933, 159 e Fedeli 1980, 119 ad 1, 3, 10 . Mi permetto di rinviare al riguardo anche alla mia analisi delle variazioni del motivo in Monella 2005, 131-132 . Perfettamente in linea con la nostra lettura delle simbologie spaziali sottese a Prop. 2, 29, 1-22 è la proposta di Cairns 1971, 455-460 (ripresa da Fedeli 2005, 818-819 ) di vedere dietro i Cupidines i fugitivarii sguinzagliati sulle tracce dell’amante/schiavo fugitivus da Cinzia.
234 Concordo con Fedeli 1980, 131 nel rigettare l’opinione di Rothstein 1920 2 , 81 secondo la quale qui Properzio sarebbe reduce da una vigilatio ad clausas foras , tenuto tutta la notte fuori dalla porta anche dalla rivale di Cinzia: il suo atteggiamento, e la gelosia della donna, lasciano pensare piuttosto ad un tradimento consumato.
235 La precisa iunctura costituita da externus amor sembra essere quasi esclusivamente elegiaca: la ritroviamo solo un’altra volta in Properzio (2, 32, 31: Tyndaris externo patriam mutavit amore ), due volte nelle Heroides ovidiane (5, 102 e 17, 96) e solo una in Stazio ( Silvae 1, 2, 204). Dal canto suo Fedeli 1980, 135 difende l’interpretazione di externus come ‘rivale’ rispetto a quella di ‘forestiero’, constatando che “è tipico dei poeti augustei l’uso di externus nel senso di adulter , rivalis ”. Non mi sembra dunque necessaria in nessun caso la correzione del Livineius in hesterna .
236 Sia detto tra parentesi che, accogliendo la lezione tràdita fores (accettata da Hanslik 1979 – ‘cerchi non so quali porte = quali case’) avremmo qui un ulteriore esempio di quell’uso metonimico di ‘porta’ per ‘casa’ di cui abbiamo discusso supra . Così però si esprime al riguardo Butler-Barber 1933, 242 : “Laddove fores è al riparo da contestazioni ( unobjectionable ), foris (Dousa pater) rappresenta un suggerimento attraente”; ed anche Fedeli 2005, 826, pur preferendo la correzione in foris , afferma che “non esistono motivi cogenti per emendare il testo, anche perché il plurale accresce la portata della colpa di Properzio, che non si limita a sostituire Cinzia con una sola donna, ma la tradisce con più donne: è quello che ci si attende, d’altronde, dalla svilita proiezione di Ulisse vagante”.
237 La sostanza della tesi qui proposta non viene inficiata, credo, dalla considerazione per cui Properzio potrebbe aver sviluppato uno spunto epigrammatico greco – che troveremmo ripreso anche da Paolo Silenziario, Anthologia Palatina 5, 275 (cfr. Enk 1946, 32 e Fedeli 1980,109-110 ).
238 Vd. Fedeli 2005, 175 .
239 Cfr. Id. 2005, 602-603.
240 Vd. Id. 2005, 678 ad Prop. 2, 24, 6-7.
241 Cfr. Id. 2005, 901-903 ad Prop. 2, 32, 23-24. A fronte di questo motivo ricorrente, appare piuttosto come un’eccezione la soddisfatta affermazione di Prop. 2, 26, 21: Nunc admirentur, quod tam mihi pulchra puella / serviat et tota dicar in urbe potens!
242 Vd. La Penna 1977, 79 (da cui è tratta la citazione); Fedeli 1985, 449-451 e, sul tono divertito dell’intera elegia, Lefèvre 1966, 137-136
243 Vd. La Penna, 1977, 176-182 .
244 Cfr. Scivoletto 1981, 27-38.
245 Vd. Scivoletto 1981, 30 .
246 Vd. La Penna 1977, 182 .
247 Sulla problematicità dell’atteggiamento properziano nei confronti del mondo della città, e sul radicale mutamento di prospettiva nella successiva elegia ovidiana, segnalo Labate 1984, 37-43 .
248 Si veda La Penna 1977, 139-156 e, su Prop, 2, 26, anche De Caro 1995, 61-77 .
249 Mi riferisco naturalmente ai Campi Elisi di Tib. 1, 3: cfr. La Penna 1977, 146 , e supra , paragrafo 3.2.4 .
250 Tale rapporto intertestuale, reso particolarmente evidente, oltre che dal motivo trattato, dalla consonanza di Verg. Buc. 10, 49: A, tibi ne teneras glacies secet aspera plantas! con Prop. 1, 8, 7: Tu pedibus teneris positas fulcire pruinas (vd. Fedeli 1980, 211-212 ). Pasoli 1977, 585-596 ha avanzato una affascinante proposta di lettura di tale rapporto, ripresa dal già citato Fedeli nel suo commento: Properzio si inserirebbe nell’implicita polemica letteraria che Virgilio nella decima bucolica conduce nei confronti della poesia elegiaca di Gallo. Quanto non è stato possibile al potere persuasorio della poesia elegiaca di Gallo, ovvero convincere Licoride a rimanere presso di lui, sarebbe invece riuscito alla werbende Dichtung di Properzio. Questo ordine di considerazioni portano dunque a ritenere unitaria l’elegia 1, 8. Per un inquadramento della questione si veda ancora Fedeli 1980, 201-208 , il quale propende infine per la divisione di essa al v. 27 (mentre Enk 1946, 74-75 conclude per l’unità); ma in ogni caso, resta indubitabile che, anche accettando tale divisione, le risultanti elegie 8a e 8b richiederebbero comunque di essere lette l’una in relazione all’altra, e costituirebbero un micro-gruppo all’interno del ciclo individuato da Stroh nelle elegie 7, 8 e 9 del primo libro, nella chiave del potere persuasorio della poesia (cfr. Stroh 1971, 35-53 ).
251 Vd. Fedeli 1980, 209-210 .
252 Sull’identificazione dei personaggi maschili rivali di Properzio nelle due elegie si consultino Enk 1962, 229 ad Prop. 2, 16; Butler-Barber 1933, 164 e Fedeli 1980, 209 ad Prop. 1, 8 . Diversa è ora la posizione al riguardo di Fedeli 2005, 473-475 nella sua introduzione a Prop. 2, 16. Sulla figura del praetor Illyricus dell’elegia 2, 16 Butler-Barber aggiunge (a 164): “La sola indicazione relativa alla datazione è che questa deve essere posteriore alla chiusura della guerra illirica nel 34 a.C. (Dio xlix. 38; App. Ill. 24-7; Vell. ii. 90; Suet. Aug. 21). Non è improbabile che il titolo di praetor venga usato nel senso di legatus pro praetore , dato che la giurisdizione della provincia non venne affidata al senato prima del 27 a.C., dopo di che essa venne governata da un proconsole (Dio liii. 12). Ma praetor è spesso usato nella lingua colloquiale nel senso di governatore di provincia, senza un riferimento ad un rango preciso”. Sul Praetor properziano vd. anche Della Corte 1986 (a), 32-33 e Lucifora 1999, 48-52 , la quale mette a fuoco il tema dell’‘indegnità’ del rivale attraverso un’analisi incrociata di testi quali appunto Prop. 2, 16, ma anche Prop. 1, 9, Verg. Buc. 10 e Tib. 2, 3. Da ultimo, “sull’atmosfera prevalentemente letteraria della situazione presentata da Properzio”, cfr. Fedeli 2005, 474-475 , con ulteriori rimandi bibliografici.
253 Vd. i vv. già citati di Prop. 1, 8, 31-40 (in particolare l’ avara del v. 38). Ancor più pervasiva è poi la polemica contro la venalità delle donne in Prop. 2, 16, per non citare lo sviluppo del tema nell’elegia ovidiana della lena (Ov. Am. 1, 8).
254 Sul ruolo di Baia come elegante ruolo di villeggiatura in età repubblicana e imperiale, rinvio ai luoghi antichi e alla bibliografia recensiti in Enk 1946, 99-100 e Fedeli 1980, 286 .
255 Cfr. Fedeli 1980, 266 (si veda anche il raffinato commento linguistico alle singole espressioni a 273-275 ), e La Penna 1977, 39 .
256 La citazione è ancora tratta da Fedeli 1980, a 274 .
257 Che si accetti la lezione amoto ( Shackleton Bailey 1956, 34 ; Goold 1990 ) e quindi si pensi al poeta stesso ( Enk 1946, 104 e Butler-Barber 1933, 170 ) o alla figura tradizionale del custos -portiere, oppure si legga amota coi manoscritti migliori (così Fedeli 1980, 276 ), immaginando piuttosto una anziana ancella che accompagni la donna fuori casa, rimane il riferimento di fondo all’assenza di una figura ‘limitante’. Nel caso del custos saremmo di fronte ad un preciso riferimento ai confini dello spazio domestico, da cui niente è più distante della corrotta Baia. Sulla dimensione ‘piccola’ disegnata da questi versi, si veda l’interessante interpretazione in chiave anche poetologica di Gazich 1993, 261-262 : “la descrizione della cymba , che ho tradotto provocatoriamente con la formula dantesca di ‘piccioletta barca’, il lago piccolo e i piccoli remi, rinviano con immagini pregnanti alla poesia elegiaca d’amore, il ‘piccolo’ mondo del poeta che egli ha consacrato come regno di Cinzia. Non c’è dunque confine tra sentimento del poeta e dichiarazione poetica, tra la donna cantata e le elegie che la cantano”. Cfr. la fine analisi del passaggio in Saylor 1975, 131-134 .
258 Quasi tutti i manoscritti non segnano infatti alcuna marca di divisione tra 1, 11 e 1, 12 (vd. Fedeli 1980, 286 ).
259 Per parte sua Butler-Barber 1933, 171 ipotizza addirittura che Cinzia sia a Roma, e che la distanza tra i due amanti sia puramente spirituale, legata al fatto che “da quando Cinzia è tornata da Baiae , i due non si sono più incontrati. Ella è a Roma; ma è come se fosse agli estremi confini della terra”. Ad una lontananza anche fisica pensa invece Fedeli 1980, 286 .
260 Cfr. Fedeli 1980, 287-288 .
261 È nota la difficoltà testuale legata al tradito conscia Roma al v. 2, corretto da Kraffert in Pontice Roma . Inutile ripetere in questa sede i termini della questione: rimando per questo l’ampia discussione (con relativa bibliografia) di Fedeli 1980, 288-290 , che propende per la correzione di Kraffert, e anche quella, più breve, di Shackleton Bailey 1956, 37 (che intende conscia come un vocativo e corregge invece faciat in facias ) e di Enk 1946, 107-108 (per una trattazione più ampia cfr. Enk 1911, 40 ). Shackleton Bailey, l’altro, chiama in causa il proemio al secondo libro del De re rustica varroniano (discusso qui nella sezione 1.2 I precedenti romani: i manifesti del ‘catonismo’ ) per collegare l’idea di desidia con la stessa vita cittadina, pur precisando poi che l’accusa rivolta qui a Properzio è relativa specificamente all’ambito erotico. Annoto qui soltanto che, come ammette lo stesso Fedeli 1980, 289 , “non è impossibile difendere il testo tradito”, e che in questo caso la iunctura che ne risulterebbe costituirebbe un’espressione tra le più vivide nella poesia properziana del legame di ‘complicità’ tra gli amanti elegiaci e il luogo teatro dei loro amori.
262 Le attrattive ‘turistiche’ di Preneste, Tuscolo, Tivoli, Lanuvio, elencate da Enk 1962, 404-406 (vd. ora anche Fedeli 2005, 891-893 ) costituiscono evidentemente un pretesto – eppure il poeta non rinuncia ad accennare ad esse con una dotta allusività di gusto ellenistico. Sulla correzione di Jortin del tràdito ducit (o dicit ) anus (o anum ) dei codici in Lanuvium , vd. Shackleton Bailey 1956, 126 (che difende il testo tradito, e legge ducit anus , interpretando via anus come apposizione ad Appia ); Butler-Barber 1933, 250; Enk 1962, 406 e Fedeli 2005, 893-894 , che invece propendono per la congettura. La Penna 1977, 184 e n. 2 suggerisce che il ricorrere di Lanuvio in Prop. 4, 8 possa essere un argomento a favore della supposizione di Jortin.
263Nel suo recente commento, Fedeli 2005, 888-889 sottolinea l’ascendenza catulliana del motivo della ‘tolleranza’ da parte dell’amante per i tradimenti della donna (cfr. Cat. 68, 135-137).
264 Vd. La Penna 1977, 97 e 185 , da cui è tratta la citazione. Sul componimento si segnala l’approfondita analisi di Pinotti 2004, 105-151, tendente a dimostrare, attraverso lo studio dell’alternarsi dei livelli stilistici, come “il tono ironico prevalente nel racconto si limiti a sfiorare la figura di Cinzia, senza coinvolgerla nella parodia” (così a 151). Ricca di suggestioni è anche la trattazione dell’elegia in Janan 2001, 114-127 , centrata sulle simbologie sessuali – dalla sessualità ‘frustrata’ come simbolo della condizione dei due amanti, al significato del rito di Lanuvio.
265 Solo un cenno andrà fatto a Prop. 2, 9, per quanto non vi si alluda ad alcun effettivo viaggio della donna. Anzi, l’unica lontananza immaginata per un attimo è quella del poeta, che si dice sicuro, se fosse trattenuto suo malgrado, da miles , in terre lontane, dell’infedeltà di Cinzia (vv. 29-30). Quanto qui mi preme notare è invece come la volubilità della donna – il tema portante dell’elegia – venga espressa in più punti tramite un vero e proprio campo metaforico costituito da verbi stativi o di moto. Al v. 8 (detto di Penelope) Illum exspectando facta remansit anus il verbo remanere non assume affatto, come può avvenire in italiano, funzioni di copula, ma mantiene il suo pieno significato stativo. Così lo interpreta Enk 1962, 135 : “remansit, i.e. fida fuit, illum expectando anus facta” (e molto similmente anche Fedeli 1984, 68 in apparato) mentre “remained at home” è la traduzione di Butler-Barber 1933, 206 . Si vedano ancora il manere del v. 20, l’uso del verbo stare riferito agli amici che hanno assistito la donna malata al v. 27 e del suo derivato constare a 35: Quam cito feminea non constat foedus in ira .
266 Cfr. Fedeli 1980, 399 e La Penna 1977, 41 (il quale immagina che si tratti già di un viaggio verso la Grecia). Sull’appartenenza del carme al genere dell’ έπιβατήριον (rovesciato), vd. Cairns 1972, 59-68 , il quale mette giustamente in evidenza, tra i vari paralleli rintracciabili, quello particolarmente stringente con Tib. 1, 3, con cui Prop. 1, 17 condivide in primo luogo la concezione del viaggio come punizione – potenzialmente letale – ad una sorta di sacrilegio contro il nume amoroso.
267 Nonostante, come dirò tra breve, l’intenzione di liberarsi dal giogo dell’amore venga effettivamente realizzata con il viaggio verso Atene di Prop. 3, 21, non penso sia il caso di identificare, come propone dubitativamente Butler-Barber 1933, 179 , questo viaggio tempestoso con quello.
268 Cfr. Enk 1946, 156 ; Butler-Barber 1933, 180 e Fedeli 1980, 411 .
269 Ad eccezione di Enk 1946, 127-128 e Butler-Barber 1933, 174 , i quali accolgono più o meno dubitativamente l’ipotesi del viaggio per mare, i commentatori sono orientati piuttosto, sulla base degli usi di periculum senza altra specifica, verso una malattia del poeta: vd. Shackleton Bailey 1956, 42 e Fedeli 1980, 338-339 , il quale, dopo aver presentato, come di consueto, con completezza i termini della questione e la bibliografia relativa, commenta giustamente: “Ma non vale la pena di affliggersi troppo se non si riesce a determinare con esattezza la natura del periculum ”. Oltre a considerare la “consuetudine alessandrina, consistente nel lasciare nel vago il lettore omettendo alcuni particolari narraviti”, scrive, si dovrebbe riflettere sul fatto che “a Properzio non interessava tanto sottolineare ai lettori la sua condizione, quanto piuttosto l’atteggiamento di Cinzia e la sua reazione”.
270 Di tale avviso sono Butler-Barber 1933, 234-236 ; Enk 1962, 329 (che però rinvia, per una discussione della questione, al suo precedente Commentarius criticus : Enk 1911, 158 ) e La Penna 1977, 66-67 e 143-146 (nel prosieguo della trattazione, dunque, per ‘26b’ si intenderanno i versi 21 ss.) . L’ipotesi della divisione di Prop. 2, 26 in tre diversi componimenti (una 26a costituita dai vv. 1-20; una 26b ai vv. 21-28, immaginato come frammento iniziale di un’elegia più vasta; ed una 26c ai vv. 29-58), proposta da van Lennep e Burman ed accolta da Goold 1990 e adesso da Fedeli 2005, 734 , si basa sia sul contrasto tra l’argomento affrontato nei vv. 29-58 e il precedente quadro gioioso contenuto nei vv. 21-28, sia sul fatto che parte della tradizione indica l’inizio di un nuovo componimento proprio al v. 29. Si veda al riguardo l’introduzione a Prop. 2, 26a nel recentissimo commento di Fedeli 2005, 734-736. Una difesa della posizione ‘unitarista’ è in Macleod 1976, 131-136.
271 Si tratta, appunto, di La Penna 1977, 66-67 e 143-146.
272Cfr. La Penna 1977, 67.
273 Vd. supra , n. 250.
274 Il testo tradito ha seu... cogitet , che fa pensare con ogni probabilità alla caduta di almeno un distico in precedenza: quest’ipotesi, oltre a permettere di immaginare un antecedente per seu , spiegherebbe anche l’introduzione ex abrupto di una prospettiva non certo felice per Properzio. La correzione heu , accolta anche da Fedeli 1984 e Goold 1990 , non presupponendo alcuna lacuna precedente, rende ancor più brusco il passaggio (vd. le diverse soluzioni proposte da Rothstein 1920 2 ad loc. ; Enk 1962, 337; Butler-Barber 1933, 235; La Penna 1977, 144 ).
275 Vd. Enk 1962, 338-340 .
276 Cfr. La Penna 1977, 145-146 .
277 Vd. Fedeli 1985, 495 e le singole note di commento sulla costruzione dello spazio ‘orrido’ nell’elegia (a partire dalla funzione del ‘tempo di notte’ a 496-497 , e passim ). Per quanto riguarda l’aspetto divertito delle esagerazioni che percorrono l’elegia (riallacciandosi comunque spesso a precisi τόποι letterari), oltre al citato commento di Fedeli, si veda Lefèvre 1966, che a 47-50 , discutendo il motivo della gespielte Furcht , la paura simulata, si occupa anche di Prop. 3, 16. Il tema del viaggio ‘tremendo’ nei dintorni della città è ripreso da Ovidio in Ars amatoria 1, 229-232: per un confronto tra i diversi atteggiamenti dei due amanti (più timoroso il poeta elegiaco, più intraprendente l’alunno dell’ Ars ), si leggano Wildberger 1998, 242 e Monella 2005, 132-137 .
278 A prescindere da studi specifici come Steidle 1962, 100-141 , che si occupa peraltro di Tibullo e Properzio, la problematica attraversa trasversalmente una larga fetta degli studi properziani, sicché appare impossibile fornire una bibliografia esaustiva al riguardo.
279 Per cui vd. Fedeli 1980, 171 .
280 Si noti come anche nella scelta dei verbi alla dinamicità della cohors dell’amico (v. 19 anteire ; 21 non umquam cessavit amori ; 34 ibis ) è contrapposta la staticità, metaforica e reale, dell’ io poetico (v. 25 quem semper voluit fortuna iacere ). Su quest’ultimo verbo, contro l’intepretazione di Enk 1946, 67 , così chiosa Fedeli 1980, 181 : “non ‘obscurum esse’ (Enk 67), ma ‘amore affectum esse’: cfr. la nota a 1, 9, 3 ecce iaces supplexque uenis ad iura puellae . Il verbo iacere designa la condizione in cui si raffigurano i poeti innamorati, in voluta contrapposizione con l’attività politica e militare: buone osservazioni in E. Reitzenstein Wirklichkeitsbild 83-84”.
281 Su Atene e l’Asia come meta di viaggi per i giovani romani di famiglie agiate, e sul loro ‘significato’ nella letteratura latina, vd. Fedeli 1980, 176-177 .
282 Sulla figura di Tullo, e il suo ruolo di “destinatario e, quindi, verisimilmente il finanziatore del I libro”, cfr. Fedeli 1980, 625-626 (con ulteriore bibliografia). Sulle dediche letterarie ai patroni nella poesia latina, si veda Fedeli 1983, 102-103 , ma in particolare sui dedicatari delle elegie properziane lo studio principale resta Citroni 1995, 381-408 (su Tullo e di dedicatari nella Monobiblos vd. in particolare a 381-392 ).
283 Il tratto della scelta di vita è assente dall’unica altra menzione del personaggio, in 1, 22: ma il libro poetico che nel nome di Tullo si era aperto, anche nel suo nome doveva chiudersi. È opinione di Weiden 1980, 93-95 che le laudes Italiae di Prop. 3, 22 costituiscano quasi un’anticipazione, alla fine del terzo libro, dei temi ‘romani’ del libro successivo.
284 Sull’identificazione dei due personaggi, vd. Fedeli 1980, 397-398 .
285 Cfr. Fedeli 1980, 400-401 . Mi sembra però eccessivo il giudizio di Paratore 1986, 75-94 , secondo cui in Prop. 4, 3, 1-6 sarebbe espressa con decisione “tutta la posizione antimilitarista di Properzio, tutta la sua avversione alla guerra partica”.
286 Sui personaggi che potrebbero celarsi dietro gli pseudonimi greci, e sulla questione del rapporto con le Heroides ovidiane, vd. Fedeli 1965, 119 . Mentre le pagine dedicate da Hallett 1971, 141-147 all’elegia mettono in luce l’avversione della donna verso la politica militarista augustea, Wyke 1987, 157-161 si sofferma sulla specificità della voce femminile della narratrice Aretusa, che apre la via al genere della “epistola elegiaca” (così la Wyke a 161 ). La dialettica tra lo spazio ‘chiuso’ di Aretusa e quello ‘aperto’ di Licota è esaminata efficacemente da Moretti 1995, 77-96 , cui si accosti la lettura complessa ed interessante dell’elegia proposta da Janan 2001, 51-69: la studiosa vede nell’elegia una riflessione sul rapporto tra la romanità e l’altro, oltre che sullo spazio del privato e dell’erotico contrapposto a quello ‘esterno’, della guerra, e sottolinea la rilevanza simbolica dell’epistola stessa e della ‘mappa’ disegnata ai vv. 35-40 dell’epistola.
287 Cfr. Enk 1962, 345 .
288La consonanza con i versi tibulliani sarebbe ancor più evidente se accogliessimo (con Fedeli 2005, 770) la lettura originale dei manoscritti, che presenta viae, non latent, in Prop. 2, 27, 6 (il testo pubblicato adesso da Fedeli è: et maris et terrent caeca pericla viae).
289 Sull’influsso della retorica cfr. Fedeli 1985, 230-231 . Quanto alla polemica anticrematistica e in particolare relativa ai rischi della navigazione, molto di essa rientra nell’ampio ambito della diatriba: l’elemento diatribico non consiste infatti nella constatazione dei rischi dell’andar per mare, bensì si fonda proprio sul biasimo dei moventi che spingono a mettere così a repentaglio la propria vita, primo fra tutti la brama di ricchezze. Sulla topica diatribica relativa alla navigazione cfr. Oltramare 1926, 83 e 209-210; specificamente sull’elegia Prop. 4, 7 come antitesi polemica all’idea dell’ αὐτάρκεια diatribica, vd. La Penna 1977, 140 . Un’interessante analisi dell’atteggiamento in Grecia verso il commercio e il κέρδος , visto nelle sue radici storico-sociali, è in Fantasia 1991, 67-109 .
290 Sulla presenza dell’ipotesi del viaggio come remedium amoris già nell’elegia proemiale, si confronti Fedeli 2000, 258 .
291 Così Fedeli 1980, 84 commenta il remanete del v. 31: “ ‘rimanete’ a Roma, al contrario di Properzio, che intende allontanarsene [...] – piuttosto che ‘remain constant to each other’ (Paley 6); nell’elegia, infatti, non si accenna al motivo dell’infedeltà”. Se l’interpretazione ‘concreta’ del verbo mi trova d’accordo, non credo però si possa affermare che il tema dell’infedeltà non sia latente anche nei versi di Prop. 1, 1: come spiegare, se non con la volubilità sentimentale di Cinzia, la sofferenza che costringe il poeta a cercare di liberarsi dall’amore con la fuga? In cosa consiste la differenza tra lui e gli amanti ‘soddisfatti’, invitati a godere a Roma della loro felicità amorosa? Sulla topicità della medicina amoris costituita dalla ‘fuga fisica’ dalla donna, sarà il caso di consultare anche Weiden 1980, 20-21 .
292 Solo una menzione meriterà la fuga nell’ incipit di Prop. 2, 30, citata solo per essere negata come alternativa valida all’amore (il collegamento con il passaggio citato dell’elegie proemiale, 1, 1, 29-30 è sottolineato da Enk 1946, 151 ). Il contesto dell’apostrofe senza alcun destinatario espresso (v. 1: Quo fugis, a demens? ) sembra collocare comunque la prospettiva del viaggio-fuga dall’amore al di fuori dell’orizzonte attuale dell’ io poetico. Fuggire è inutile, sostiene Properzio: l’amore raggiunge i suoi schiavi anche nelle terre più lontane. Ma la condizione della persona elegiaca, qui, è ancora quella di preda – non recalcitrante – della propria schiavitù interiore: lo dimostra lo sviluppo successivo dell’elegia, in cui il poeta sceglie invece di rifugiarsi con Cinzia nel mondo delle Muse (cfr. vv. 23-24: Una contentum pudeat me vivere amica? / hoc si crimen erit, crimen Amoris erit ). Tale osservazione perderebbe certo di forza se si decidesse con editori come Enk 1962, 380-383 di sanare le non poche difficoltà esegetiche di questa elegia dividendola in due componimenti. Ma comunque, anche considerando insieme ad Enk i vv. 1-12 come facenti parte di un’elegia a sé, l’ultimo distico di una ipotetica 2, 30a (vv. 11-12) rende evidente come l’ io parlante trovi consolazione nel sapere che il dio Amore è exorabilis per chi si trovi a peccare contro di lui. Il che mostra come il quadro qui sia quello di un amante che non ha affatto scelto di liberarsi dall’amore in via definitiva, ma ha solo commesso un ‘errore’ contro la donna, in séguito al quale le condizioni della storia d’amore sono divenute insopportabili (si pensi alle ire e alle tremende vendette di Cinzia). La speranza di fondo dell’innamorato consiste dunque nel poter supplicare il dio (o forse la donna?) e poter tornare a godere delle gioie dell’amore. La fuga progettata da Properzio in 1, 17 per se stesso dimostra un cambiamento importante, ma non è prima dell’elegia 3, 21, come vedremo a breve, che la condizione interiore del poeta-amante renderà possibile l’infrazione del tabù spaziale.
293 Non mi trovo pertanto d’accordo con Weiden 1980, 91-93 , la quale, riprendendo ed ampliando un suggerimento di Hubbard 1975 2 , 90 n. 1 , sostiene che l’entusiasmo di Properzio per il viaggio verso Atene in 3, 21 non sia autentico, ed anzi “Properzio prova a se stesso, attraverso un processo di tentativo ed errore, che una fuga ad Atene non rappresenta affatto una soluzione” (così Weiden 1980, 93 ). Nel testo non riesco ad isolare alcuna traccia evidente di negazione, anche solo per il tramite dell’ironia, della validità della fuga progettata.
294 Il passaggio è irto di difficoltà testuali, talmente complesse che non varrà neppure la pena tentare di sintetizzarle in questa sede. Una buona informazione, anch’essa necessariamente selettiva, è in Fedeli 1985, 680-682 . Consento peraltro con Butler-Barber 1933, 320 e Fedeli 1985, 682 nel vedere dietro il naufragio nel mar Egeo dei vv. 11-12 una metafora indicante l’ insania erotica e, quindi anche nell’approdo dei versi 15-18 una conquista puramente ideale della Bona Mens . Sul viaggio inteso come remedium amoris in Prop. 1, 1 e 3, 21, e sull’uso metaforico del tema in 3, 24, si vedano le osservazioni di Fedeli 2000, 258-260 .
295 L’intero saggio di Labate 1984 andrà tenuto costantemente presente, e in modo particolare i primi due capitoli ( Poetica ovidiana dell’elegia: la retorica della città e Amore e società: la riconciliazione dell’elegia ). Sul ‘gusto modernizzante’ ovidiano e sulla sua adesione finalmente piena al mondo dell’ urbanitas , simboleggiata dall’ideale del cultus , imprescindibili rimangono le pagine di Zinn 1968, 3-16, di La Penna 1979, 181-205 e, per l’ Ars amatoria , di Scivoletto 1976, 57-88. Sulla ‘riscrittura’ ovidiana del genere elegiaco negli Amores, ha scritto pagine lucide e centrate Holzberg 1992, 69-79.
296 Ricco di suggestioni, ma focalizzato sulle Heroides , le Metamorfosi e le opere dell’esilio, risulta lo studio di Viarre 1988, 89-105 .
297 Vd. Labate 1984, 37-39 , e in particolare a 37 : “Eppure né Tibullo né Properzio avevano dato all’elegia d’amore una organizzazione tematica, una forma espressiva coerente, organica all’ideologia urbana cui era vincolato il loro fare poesia. La città che li abbagliava con gli splendori della vita galante, la donna che aveva scacciato dal loro cuore le caste fanciulle e un’esistenza ordinata, erano, a un tempo, amate e rifiutate, esaltate e maledette”.
298 Uno studio stimolante e non banale sulla concretezza della ‘life of luxury’ dell’età augustea e sulla sua rappresentazione letteraria è costituito da Griffin 1976, 87-105 .
299 Sull’importanza della separazione degli ambiti di validità tra etica dell’ eros e mos maiorum , vd. anche La Penna 1979, 202-205 e Pianezzola 1999 (c), 157-159 , il quale parla di una “doppia morale” e di “autolimitazione” dello spazio di validità dell’etica amorosa nell’ Ars amatoria . Altrove, Pianezzola 1999 (a), 9-42 , pur riconoscendo l’esistenza di “tendenze anticonformistiche” all’interno dell’ Ars amatoria , conclude escludendo da parte di Ovidio di una consapevole e coerente opposizione al regime augusteo (vd. in particolare a 26 ).
300Vd. supra, paragrafo 4.2.3 I luoghi della città come spazio ‘esterno’ all’ethos elegiaco.
301 Sui punti di contatto tra le due elegie, si veda il commento di Brandt 1911, 152-154 .
302 Si confronti la menzione del ratto delle Sabine in Prop. 2, 6, 19-22 con quella del crimen (l’unione tra Marte e Rea Silvia) da cui è nata la stirpe dei Romani in Ov. Am. 3, 4, 39-40.
303 Vd. Ars 3, 385-396. Sulle connessioni con il regime augusteo di alcuni dei monumenti citati, vd. il commento di Hollis 1977 43-48 ad Ov. Ars 1, 67-262 , oltre che Labate 1984, 81-85 (con particolare attenzione all’evergetismo dell’intera famiglia del principe) e Wildberger 1998, 39-42 . Assai diversa dalla lettura di Labate appare poi quella di Klodt 2001, 33 n. 80 , la quale parla, per le rassegne topografiche dell’ Ars ovidiana, di una ‘degradazione’ dei centri monumentali augustei al rango di “punti di incontro tra i sessi”, riconducendo l’operazione ad un’estraneità del poeta negli “obiettivi politico-morali di Augusto”.
304 Vd. Ars 1, 255-262.
305 Il viaggio, fin qui, rimane escluso dall’ottica dell’ eros, ma solo in virtù della αὐτάρκεια della città in fatto di bellezze femminili. Su questa peculiare declinazione del concetto di autosufficienza, e in generale sulle laudes Romae ovidiane, in relazione ai precedenti greci (le lodi dell’Attica) e romani, e in particolare con le laudes Italiae di Prop. 3, 22, rimando alla dettagliata analisi di Labate 1984, 51-54 , nonché al commento di Hollis 1977, 42 . Negli Amores e nell’ Ars anche l’insistenza sull’immagine della folla, evidenziata da Viarre 1976, 11-13 , costituisce un aspetto della presenza della vita metropolitana nella poesia del Sulmonese, così come il fascino avvertito dal poeta dinanzi al fasto della Roma ‘aurea’ di Augusto (vd. Bonjour 1980, 221-230 ). Poco aggiungono in materia le pagine di Paratore 1967, 31-34 .
306 Piuttosto che leggere dietro l’arguzia ovidiana un atteggiamento irriguardoso verso la propaganda ufficiale e il militarismo augusteo, come suggeriscono La Penna 1979, 189 (il quale parla di “elegante parodia”) e McKeown 1989, 222 ad Ov. Am. 1, 8, 41-42 , oppure con Hollis 1977, 43 ad Ov. Ars 1, 60 la prospettiva di “accostamenti irriguardosi” tra il principe e Cupido (possibilità sfruttata, ad esempio in Ov. Am . 1, 2, 51), preferisco aderire all’impostazione di Labate 1984, 51-52 , secondo la quale l’adesione entusiastica di Ovidio alla Roma augustea, seppure connotata da toni ‘frivoli’, mondani, convive, secondo la logica della ‘retorica della contiguità’, con i temi dell’ideologia augustea, costituendone anzi un originale, ma sostanzialmente non dissonante, controcanto: “La lode frivola di un poeta d’amore e la lode solenne di un poeta civile non devono contrapporsi, l’una non nega l’altra nella figura dell’ironia: sono invece due modi, letterariamente e culturalmente diversi, di tradurre lo stesso consenso, la stessa adesione ad presente”.
307 Sull’elegia della lena e sul ruolo di quest’ultima nell’ideologia elegiaca ‘riformata’ di Ovidio si vedano Labate 1977, 285 e Id. 1984, 89 e n. 53 . Per una trattazione più ampia della figura della ruffiana in relazione soprattutto ai modelli greci e del teatro latino, si vedano Sabot 1976, 199-209 (più centrato su Ov. Am. 1, 8 e l’intratestualità ovidiana), Fedeli 1995, 307-317; Id. 1999, 32-40 , oltre ai commenti di Brandt 1911, 60-61 e soprattutto di McKeown 1989, 198-201 . Andrà ancora ricordato il finissi mo saggio di Romano 1980, 269-292, incentrato sui rapporti tra Am. 1, 8 e l’‘elegia didattica’ dell’ Ars amatoria.
308 Qui e nel prosieguo della trattazione la numerazione delle elegie del secondo libro degli Amores ovidiani dalla nona in poi sarà quella dei manoscritti (per cui l’elegia il cui incipit è Tu mihi, tu certe, memini, Graecine, negabas rappresenta la decima elegia del libro).
309 Cfr. Cairns 1972, 160 . L’elegia è analizzata, per la topicità di molti suoi singoli aspetti, in più punti del saggio di Cairns sulla Generic composition : vd. Cairns 1972, 53; 57; 121-122; 159-162 . Ulteriore discussione sull’elegia nel quadro del genere del propemptikón nell’introduzione all’elegia di McKeown 1998, 222-224 , con rimandi bibliografici ed una rassegna di testi poetici e retorici di riferimento.
310 Beninteso, anche la rappresentazione a tinte fosche del viaggio per mare nella parte iniziale del componimento (vv. 1-32) svela ad un’analisi più ravvicinata la propria natura topica, a partire dall’ incipit sull’impresa degli Argonauti, gravido di una memoria intertestuale che trova nel carme 64 di Catullo lo snodo verso memorie precedenti greche e latine (vd. McKeown 1998, 224-228 ).
311 Ciascuno di tali elementi, peraltro, ricorreva nella tradizione elegiaca più influenzata dal genre del propemptikón : gli auguri di buon viaggio successivi allo schetliasmós compaiono in Prop. 1, 8, 17-20 dopo le maledizioni del poeta dirette al viaggio dell’amata, mentre la fantasia del ritorno (ma a ruoli rovesciati, con l’innamorato colpevolmente in viaggio) occupa i versi finali (vv. 89-94) anche di Tib. 1, 3: si noti in particolare la consonanza tra Tib. 1, 3, 93-94 e Ov. Am. 2, 11, 55-56, non sfuggita ai commentatori (vd., e. g. , Brandt 1911, 118 e McKeown 1998, 261-262) .
312 Vd. Lenz 1959, 59-68 . In séguito lo stesso studioso (in Id. 1962, 150-153 ) ha risposto all’analisi contraria di Pöschl 1979, 257-267 (apparso originariamente nel 1959: vd. Bibliografia finale), aggiungendo precisazioni sulla simmetria aritmetica delle sezioni di versi individuabili nel componimento.
313 Cfr. la più articolata lettura di Pöschl 1979, 257-267 .
314 Per cui McKeown 1998, 330 rinvia a Menandro Retore 3, 387, 10 ss.
315 Neanche la Sirmione o la Verona di Catullo avevano goduto di tale privilegio: in Cat. 68, 27-40 viene anzi marcata nel modo più amaro l’estraneità di Verona tanto alla vita della poesia quanto alla liaison con Lesbia (vd. supra , paragrafo 2.2 La città come sfondo della creazione letteraria ).
316 Vd. Brandt 1911, 23-24 . Sull’elegia come kletikon hymnon , vd. anche McKeown 1998, 329 .
317 Cfr. Della Corte 1985, 367-371 (e Pöschl 1979, 257-267 ).
318 Vd. McKeown 1998, 328-366 . Una valutazione equilibrata dell’importanza delle singole fonti per questo componimento, e insieme dell’originalità ovidiana, offre Scivoletto 1976, 25-27 .
319 Anche questo riferimento, come il precedente alle elegie del distacco in Tibullo e Properzio, è in McKeown 1998, 328 . Per quanto riguarda il remedium amoris in campagna o nell’attività venatoria, il commentatore richiama naturalmente Verg. Buc. 10, 50 ss., oltre a Prop. 1, 18 e Ov. Rem. am. 169-212.
320Vd. supra, paragrafo 3.2.1 La natura irreale del sogno georgico-bucolico.
321 Vd. ancora McKeown 1998, 328-329 . Né va dimenticato come l’orgoglio della propria terra natale, in sé, costituisse un elemento non estraneo alla poesia properziana (vd. in particolare Prop. 1, 22, 12-13; 4, 1, 66-67 e 124-129).
322 Si veda l’interpretazione dell’ecloga in chiave metaletteraria proposta da Conte 1980, 11-43.
323 Così McKeown 1998, 331 , citando una nota di Booth. Peraltro, lo stesso McKeown aggiunge che “tuttavia tale implicazione non diventerà evidente fino al v. 11”.
324 Giusta, in questo senso, l’osservazione di McKeown 1998, 223 e 329-330, secondo cui “quest’elegia ( scil. Am. 2, 16) è da leggere in stretta relazione a 2, 11” (così a 329).
325 Un importante precedente elegiaco dell’idea di un viaggio congiunto degli amanti è rappresentato, come sappiamo, da Prop. 2, 26, 29-58 (per cui vd. supra , paragrafo 4.3.3 Il viaggio come punizione e come prova ), con cui l’elegia ovidiana condivide i toni cupi nella rappresentazione del viaggio e del naufragio. Un punto di divergenza non secondario però è rappresentato dal fatto che nell’elegia properziana il poeta-amante seguiva una donna decisa a partire, come ultima risorsa per poterle rimanere accanto, mentre l’amante ovidiano, tanto in relazione al viaggio a Sulmona, quanto nelle fantasie di viaggi in compagnia dell’amata, prende egli stesso l’iniziativa, e richiede la compagnia della donna come semplice comes (sulla connotazione vagamente degradante della locuzione comes ire al v. 17 – ma si veda anche il ricorrere di comes al v. 43 – cfr. McKeown 1998, 342-343 ). L’immagine della donna ‘accompagnatrice’ di un uomo impegnato nella carriera militare era comparsa invece nell’epistola poetica di Aretusa a Licota (Prop. 4, 3, 45-46).
326 Anche in elegie come Tib. 2, 3; Prop. 2, 19 o 3, 19, in cui l’innamorato si spostava in campagna per cercarvi l’unione con l’amata, egli era costretto a farlo in séguito alla ‘fuga’ della donna dalla città (Tib. 2, 3 e Prop. 2, 19) o ad un invito di lei (3, 19). Inoltre determinati aspetti di ciascuno di questi testi inducono a relativizzare la loro incidenza sul quadro complessivo delle categorie spaziali elegiache. Per quanto riguarda Tib. 2, 3, essa va comunque letta in considerazione del carattere umoristico e parodico che caratterizza l’improbabile figura dell’amante urbano improvvisatosi contadino; in Prop. 2, 19, come abbiamo visto, non è prefigurata alcuna prospettiva di unione tra gli amanti nei rura o nei boschi, mentre in Prop. 3, 19 la ‘convocazione’ a Tivoli mostra un carattere affatto episodico, e sembra più che altro finalizzata a dare la stura alle più cupe fantasie di pericoli notturni, oltre ad illustrare il tema della invulnerabilità degli amanti.
327 McKeown 1998, 342 , riferendo un’opinione di Booth, ritiene che anche Corinna in 2, 11 sia partita al séguito di un dives amator , ma non credo che l’osservazione volesse essere estesa a 2, 16. Il commentatore, a 338 , definisce l’elegia un propemptikón rivolto a Corinna, ma anche qui ritengo si riferisca al viaggio che il poeta la invita a compiere per raggiungerlo. Di opinione diversa, come sopra accennato, Brandt 1911, 23-24 , il quale ritiene che la lontananza della donna in 2, 16 sia dovuta al prolungarsi dello stesso viaggio cui fa riferimento l’elegia precedente. Contro l’ipotesi di un viaggio di Corinna in terre lontane credo deponga il fatto che la sua lontananza è presentata in più punti come tale da poter venire ‘risolta’ velocemente, e per via terrestre: al v. 16 si parla di viae che solcano la terra, ma soprattutto nel finale dell’elegia (vv. 47-52) Ovidio invita la donna a raggiungerlo tramite un piccolo carro. Così McKeown 1998, 364-365 : “L’ essedum era un carro celtico a due ruote, con cui i Romani fecero la loro prima conoscenza in guerra, ma di cui presto si appropriarono ed adattarono come veicolo alla moda. [...] Suggerendo questo mezzo di trasporto, Ovidio non solo lusinga la sua donna così attenta alla moda, ma implica anche che il viaggio sarà facile”. Vd. anche Brandt 1911, 129 , che definisce il cocchio in questione “un grazioso veicolo di lusso, in particolare per viaggiatrici di sesso femminile”. Non deve infatti sfuggire che la domina è invitata a reggere ella stessa le redini del piccolo veicolo (v. 50).
328 Vd. McKeown 1998, 342 ad Ov. Am. 2, 16, 17-18: “Il desiderio di Ovidio è paradossale, in quanto ‘ciò che egli vuole era, in un certo senso, già una pratica comune; in quanto le puellae della poesia di fatto seguivano regolarmente gli iuvenes nei lunghi viaggi... il problema era che questi iuvenes non erano mai i loro devoti poetae (Booth sui vv. 15-18, il quale cita Licoride in Verg. Ecl. 10, Cinzia in Prop. 1.8 e, per inferenza, la stessa Corinna in 2,11)”. Che la situazione di Corinna in Am. 2, 11 sia la stessa, non è dimostrabile se non, appunto, per inferenza, nondimeno alla lista di Booth credo si possa aggiungere la Nemesi di Tib. 2, 3, la quale ha seguito un ricco spasimante nella campagna tanto invisa al poeta-amante cittadino.
329 In Prop. 1, 8 leggiamo un distico che riassume quanto più efficacemente il nucleo centrale della visione elegiaca dello spazio: illi carus ego et per me carissima Roma / dicitur, et sine me dulcia regna negat . Si può dire che il concetto della presenza dell’amata come dos loci (vd. Ov. Her. 15, 146) sia stato sostanzialmente ereditato da Ovidio, il quale però, applicandolo in modo non pregiudiziale a qualunque luogo in cui i due amanti si trovino insieme, di fatto lo usa per argomentare contro uno dei capisaldi dell’organizzazione simbolica dello spazio nei testi degli altri elegiaci.
330 Il motivo rientra fra quelli che non sono passati dal liber catulliano al più selettivo universo tematico elegiaco (vd. Cat. 11, 1-14, dove però era riferito a Furio e Aurelio, amici del poeta). Per un più completo catalogo di ricorrenze, vd. McKeown 1998, 343-344 . Il mito che diventa l’emblema di tale forma di dedizione è sin d’ora quello di Ero e Leandro (Ov. Am. 2, 16, 31-32): ritroveremo lo stesso riferimento mitologico anche in Ars 2, 252-253.
331 Vd. supra , paragrafo 4.3.3 Il viaggio come punizione e come prova .
332 Cfr. Copley 1956, 125-127 e, per la vicinanza della perorazione ovidiana in Ov. Am. 3, 6 a quella usuale dell’ exclusus amator , Donini 1969, 210 e Scivoletto 1976, 24 .
333 Donini 1969, 210-222 offre una minuta analisi dell’elegia 3, 6 dal punto di vista stilistico e dei referenti intertestuali (per i quali vd. anche Brandt 1911, 156-161 ). Particolarmente centrata sull’‘epillio’ di Ilia è la trattazione di Sabot 1976, 482-491 .
334 Per i soli Amores si potrebbero annoverare tra gli accenni diretti Ov. Am. 1, 4, 61-62; 1, 8, 77-78 (nell’elegia ‘normativa’ della lena ; vd. poi i precetti dell’ Ars amatoria ); 1, 9 15-16; 19-20; 27-28 (all’interno della ‘ridefinizione’ dell’amore elegiaco nell’elegia della militia ); 2, 1, 17-18 (in cui la chiusura della porta da parte dell’amata ha il potere di far tornare il poeta con velleità epiche alla poesia elegiaca); 2, 13, 3-4 (l’‘assedio’ alla porta, qui come in 1, 9, è paragonato al proprio corrispettivo militare); 3, 8, 23-24; 3, 11, 9-16. Sul tema della inutilità della custodia alla donna, e su quello opposto della sua indispensabilità per conferire allure alla conquista del poeta, Ovidio esperisce le proprie abilità argomentative rispettivamente in Am. 3, 4 e 2, 19, mentre la stessa Am. 2, 2 (la supplica al custos Bagoo, seguita dall’invettiva di 2, 3) costituisce un esempio dello sviluppo del motivo in senso retorico di cui si compiace Ovidio (per quanto il custos non coincida necessariamente con lo ianitor : cfr. Copley 1956, 168 n. 2 ). Forse più interessante ancora sarebbe vedere come la ‘piccola’ porta dell’amata divenga il simbolo spaziale della stessa elegia in opposizione alla grandiosa reggia della tragedia in Am. 3, 1, 39-40 e nei versi seguenti. Come era lecito aspettarsi, un così importante aspetto dell’amore elegiaco trova compiuta codifica nell’ Ars amatoria (vd. 2, 523-528, dal punto di vista degli uomini; 3, 579-588 e 611-658 da quello delle donne), e ritorna nei Remedia amoris (vv. 31-32 e 35-36). Le occorrenze marginali del tema sono raccolte da Sabot 1976, 513-516 (la quale si occupa poi di Am. 1, 6 a 517-520 ), mentre Copley 1956, 125-131 rivolge la propria attenzione soltanto ad Am. 1, 6, e alla supplica di Ifi ad Anassarete in Met. 14, 698-758. Sul tema vd. ancora Scivoletto 1976, 23-25 .
335 Cfr. Copley 1959, 125-134 , in particolare a 125. Dello stesso parere Sabot 1976, 517: “Ovidio sfrutta qui il motivo per se stesso e non per illustrare altre idee. Egli lo spoglia di tutti i conflitti morali, psicologici e personali, e gioca con il tema cercando di renderlo divertente. In lui, né dolore né delusione. Nessuna disputa contro un codice morale. L’originalità non risiede nel contenuto, ma nell’impiego dei diversi elementi”.
336 La spinta dinamica, ‘centrifuga’ dell’attivismo erotico ovidiano trova una singolare affermazione simbolica in un’elegia di cui si è occupato in modo illuminante Labate 1984, 69-78 : Ov. Am. 2, 9. Come ha mostrato lo studioso, qui (come anche in Am. 1, 12) il comportamento dello stesso dio Amore, e poi i rapporti tra il dio e l’amante suo suddito, sono descritti in relazione alle categorie mentali e tramite un vocabolario propri della sfera del pubblico a Roma, e anzi propriamente dell’imperialismo romano. Tale rapporto, sostiene ancora Labate, viene esplicitato in Am. 2, 9, 17-18 ( Roma, nisi inmensum vires promosset in orbem, / stramineis esset nunc quoque tecta casis ). A Cupido l’amante ha rimproverato di infierire su coloro che sono già sotto il suo potere, e adesso addita l’esempio di Roma, che ha sempre rivolto la propria energia conquistatrice verso l’esterno, senza accontentarsi dei territori già ottenuti.
337 Così Labate 1984, 94 . La bibliografia fondamentale sulla militia amoris , in cui un posto fondamentale è sempre accordato all’elegia ovidiana in esame, comprende la dissertazione di Spies 1930 ; Thomas 1964, 151-165 ; Murgatroyd 1975, 59-79 ; Sabot 1976, 491-502 ; Labate 1984, 90-97 ; Conte 1991, 53-57 ; Lucifora 1996, 153-167 . Specificamente su Ov. Am. 1, 9 si vedano il commento all’elegia di Barsby 1973, 106-114 e Pianezzola 1999 (b), 135-142 (dedicato, quest’ultimo, esclusivamente ad Ov. Am. 1, 9).
338 Per il nostro discorso, il punto di riferimento bibliografico più importante resta l’acuta lettura dell’elegia di Labate 1984, 90-97 sulla perdita del carattere ‘antifrastico’ della metafora del miles amoris nel segno della ‘retorica congiuntiva’ ovidiana, mirante a rendere il mondo dell’elegia latina compatibile, e dunque commensurabile, con le categorie mentali romane. Sarebbe superfluo soffermarsi ulteriormente sulla pregnanza simbolica della stessa iunctura qui scelta da Ovidio ( longa via ), e soprattutto sui significati che essa veicola, aspetti entrambi su cui ci siamo soffermati più volte nel corso dei capitoli di questo studio. Dal commento di McKeown è possibile trarre una dettagliata informazione sui luoghi paralleli riguardanti l’idea di un innamorato ‘attivo’ (si tratta di passaggi tratti esclusivamente dall’ambito greco: vd. McKeown 1989, 257-258 ); i disagevoli viaggi militari e il tema del viaggio degli amanti ( a 264 ); le avverse condizioni atmosferiche per soldati ed amanti ( a 266 ).
339 Di fronte all’assimilazione del tema del viaggio all’universo elegiaco operata in componimenti così pregnanti all’interno della raccolta degli Amores , la tirata contro la brama dei viaggi all’interno del noto brano relativo all’età di Saturno in Ov. Am. 3, 8, 43-44 e 49-52 evidenzia una contraddizione difficilmente sanabile, così come l’intera tirata diatribica che Labate 1984, 116 definisce “piuttosto imbarazzante” per l’interprete. A proposito dell’intera elegia, lo studioso conclude: “Chissà che qualche volta non sia consentito davvero al filologo di cavarsela con la storia dell’ingombrante ricordo di scuola” – ma per quanto riguarda in particolare l’aspetto del rifiuto della navigazione, all’influenza di una diatriba da suasoriae va aggiunta almeno la volontà di adeguarsi, almeno per una volta, alle più ‘ortodosse’ convenzioni elegiache. Sull’elegia si confronti anche La Penna 1979, 200 . Gli spunti di polemica diatribica non sono frequenti negli Amores ovidiani: si potrebbe citare al più Ov. Am. 2, 11, 33-34, contro l’avidità degli avidi naviganti (cfr. Prop. 3, 7, l’elegia sulla morte di Peto).
340 Il collegamento con un aspetto preciso della realtà della vita romana accomuna la gita a Lanuvio di Cinzia in Prop. 4, 8 e quella a Faleri della moglie di Ovidio in Am. 3, 13: il motivo (o, per l’ amica di Properzio, forse il pretesto) è rappresentato da un rito in onore di Giunone. Si tratta del culto di Iuno Sospita a Lanuvio (cfr. Fedeli 1965, 206 ad Prop. 4, 8, 3, ed anche Enk 1962, 406 ad Prop. 2, 32, 6); di Iuno Curitis a Faleri (cfr. Brandt 1911, 186 ad Ov. Am. 3, 13, 1). Tra l’altro, anche il rito di Giunone a Faleri sembra avere la connotazione di un rito di fertilità, di natura ierogamica (vd. ancora Brandt 1911, 186 , con ulteriore bibliografia).
341 Come è noto, non solo l’Egitto rappresentava in questa età il vero centro culturale ed economico dell’ellenismo, ma rimase l’ultimo regno ellenistico a mantenere la propria identità e la propria autonomia, fino a divenire, nello scontro culminante della lunga stagione delle guerre civili, addirittura la controparte ‘orientale’ del blocco sociale e militare italico-ocidentale aggregatosi intorno ad Ottaviano. Né si dimentichi che anche dopo l’assoggettamento del regno tolemaico Augusto si era preoccupato di riservargli uno statuto amministrativo speciale, mantenendolo sotto la propria diretta dipendenza – segno dell’importanza strategica dell’Egitto, e della particolare delicatezza delle problematiche legate alla sua gestione.
342 Così ad esempio Della Corte, 1966, 332 .
343 Vd. Gaisser 1971, 221-229 ; Bright 1975, 31-46 e Id. 1978, 60 . Sulla figura divina di Osiride nell’elegia (visto come dio di tutta la vegetazione, e non solo come corrispondente di Bacco), cfr. ancora Alfonsi 1968, 475-476 , con ulteriori rimandi bibliografici.
344 Tale la tesi, nel complesso poco convincente, di Riposati 1967 2 , 173-174 .
345 Cfr. ancora Della Corte, 1966, 332-333 e poi Id. 1989, 198 e 202 .
346 Cfr. Hanslik 1970, 142 , il quale scorge spunti di ironia verso i culti ‘esotici’, e ricorda la menzione di divinità fortemente connotate come romane, quali Saturno, i Lari, i Penati, seguito in questo da Mills 1974, 228 .
347 Il più convinto nello scorgere i contorni un’ostilità tibulliana verso i culti non quiritari, a partire da quello egiziano di Iside, è Morelli 1991, 181-183 e n. 30 , il quale cita a raffronto anche il cenno sprezzante ai riti di Opi/Cibele in Tib. 1, 4, 67-70. Sull’ipotesi, cfr. ancora Bright 1978, 52-63 e Della Corte 1986 (b), 7-8 .
348 Vd. McKeown 1998, 280-281 : “Specialmente date le ripercussioni della lotta contro Antonio e Cleopatra (la νέα Ἶσις di Plut. Ant. 54.9; cfr. il commento di Pelling), Iside e il suo séguito subirono una disapprovazione ufficiale, di cui troviamo un riflesso in Verg. Aen. 8.696 ss. e Prop. 3.11.39 ss. Eppure la diffusione del culto isiaco aveva raggiunto un tale séguito in questo periodo che sarebbe affrettato rinvenire in questi versi un vero e proprio affronto al regime. Per la distinzione tra i pronunciamenti ufficiali di Augusto contro i culti egiziani e le sue vedute più tolleranti sulle cerimonie private, si veda Takács (1995), specialmente a 75 ss. [= Takács, S.A., Isis and Sarapis in the Roman world , Leiden 1995]”. Su Ilizia, basti rimandare a McKeown 1998, 288 . La menzione dela Gallica turma al v. 28 potrebbe rinviare ad una terza divinità, Cibele (così commenta Brandt 1911, 121 e 217-218 , sostenendo che Iside e Cibele venivano spesso scambiate), ma l’oscuro riferimento a questa forma di culto costituisce un problema esegetico più complesso, che McKeown 1998, 287-288 inquadra dal punto di vista storico-religioso e della stessa costituzione del testo senza ricorrere all’ipotesi di una confusione tra Iside e Cibele.
349 Si confrontino i versi di Prop. 2, 24, 15-18: ecce coronatae portum tetigere carinae , / traiectae Syrtes, ancora iacta mihist. / nunc demum vasto fessi resipiscimus aestu, / vulneraque ad sanum nunc coiere mea . Vd. Brandt 1911, 180 , il quale, per l’immagine del ritorno in porto della nave, cita anche Verg. Georg. 1, 303-304.
350 Così, ad esempio, il commento di Brandt 1911 oppure l’edizione critica di Showerman-Goold 1977 . L’ipotesi di una divisione dell’elegia viene rigettata con argomenti convincenti da Franzoi 1993, 31-40.
351 Per un’operazione letteraria come quella compiuta in Ov. Am. 3, 11 trovo che il quadro ermeneutico più adatto sia quello dell’‘ironia’ nel senso precisato da Conte 1991, 63-70 , ovvero come ‘dialettica riflessiva’, auto-consapevolezza delle regole del genere che costituisce il presupposto fondamentale per la loro riscrittura ma insieme ne permette ancora la sopravvivenza.
352 Sul piano della strenuitas , seppure rivolta ad un obiettivo non contemplato tra quelli della morale tradizionale (l’amore della puella ), l’etica erotica diviene dunque commensurabile a quella comune: vd. il fondamentale saggio di Labate 1984 già più volte citato, passim . Sulla novità profonda dell’ Ars amatoria , al di là del suo cercato rispecchiamento della topica erotica soprattutto elegiaca, cfr. ancora Wildberger 1998, 214-242; Conte 1991, 53-94 e 72-76 o Pianezzola 1999 (c), 143-159.
353 Si vedano in particolare le raccomandazioni ai giovani ( Ars 1, 487-494) sull’audacia e l’intraprendenza anche ‘fisica’ degli approcci – particolarmente vivace il quadretto del corteggiatore che cerca di accostare la donna sulla lettiga o a passeggio tra i portici – o gli speculari ammonimenti alle fanciulle (3, 383-394) sull’opportunità del ‘presenzialismo’ nei luoghi d’incontro della capitale.
354 Vd. supra , paragrafo 5.2 L’appropriazione della top o grafia urbana .
355 Sui versi incipitari, così Hollis 1977, 34: “Gli epiteti applicati alle navi ed ai carri, citae e leves , assumono particolare pregnanza poiché mobilità e volubilità sono note qualità dell’amore che Ovidio deve controllare”. Per quanto riguarda il campo metaforico della navigazione, sulle cui ascendenze omeriche cfr. Citroni 1984, 157-167 (ripreso in Pianezzola 1991, 186), è ancora possibile citare Ov. 1, 367-368 (‘vela’ e ‘remi’ nella persuasione della fanciulla da parte dell’ancella); 399-404 (i tempora adatti per prendere il mare); 2, 9-10 (la nave dell’amante è ancora in alto mare); 337-338 (i migliori venti da usare per calibrare l’andatura); 671-672 (navigazione, agricoltura e guerra sono accostate all’attività amorosa; cfr. Labate 1984, 98-103 ); 275-278 (calibrare l’uso delle vele per giungere insieme alla donna alla meta dell’orgasmo); 3, 259-360 (la donna priva di bellezza è come un marinaio nella tempesta). Variazioni sul tema sono costituite da Ars 1, 381-382 (Ovidio non consiglia all’amante di camminare per vette aguzze, rischiose) e 3, 555-558 (la donna deve regere l’amante, come si fa coi cavalli, con accortezza).
356 In questo caso appare prevalente il Leitmotiv dell’equitazione: sempre partendo dal proemio, il primo rimando è ad Ars 1, 39-40 ( Hic modus, haec nostro signabitur area curru: / haec erit admissa meta terenda rota ), cui può essere accostato 2, 525-428, in cui pure alla metafora è attribuito un valore ‘strutturale’ nella dispositio dei temi (il poeta rinuncia ad invadere il campo delle arti magiche, e ritorna nell’ambito della didascalica propriamente erotico-libertina). In quest’ultimo passaggio la metaforica del movimento è piegata in pochi versi a tre diversi campi d’applicazione, tra i quali non si potrà negare una forma di rispecchiamento: ai vv. 525-428, il paragone con la nave riguarda, come abbiamo visto, alla poesia di Ovidio; in 429-432 la stessa immagine è riferita alla levitas degli innamorati, simile ad un’imbarcazione spinta da venti diversi; infine, ai vv. 433-434, la metafora del cocchio (più adatta a significare anche il concetto di abilità, tanto del poeta quanto dell’amante accorto) rinvia all’arte di gestire abilmente la gelosia dell’amata. Coerente con l’immagine della gara tra carri potrebbe essere Ars 2, 733-744, laddove giunto al finale del secondo il poeta richiede la palma della vittoria (tra i referenti mitici di eroi vittoriosi non manca al v. 738, subito prima della menzione di Ovidio stesso, Automedonte, campione nella corsa dei cocchi), e potremmo citare ancora Ars 3, 467-468 (dove ritorna ancora una volta il valore ‘strutturale’ dell’immagine; vd. Janka 1997, 502-503 ), ma soprattuto andrà tenuta presente la conclusione dell’intero poema, in cui Ovidio, terminato il lusus , dice essere tempo di discendere da un carro che scopriamo essere stato condotto dai cigni (3, 809-810). Sull’intero campo metaforico, un commento di portata generale è in Janka 1997, 324-325 . Quanto alla metafora della traversata per mare, la ritroviamo in posizione ‘forte’ nella chiusa del primo libro ( Ars 1, 771-772; vd. Hollis 1977, 149), e ancora in 3, 25-26; 3, 99-100; 3, 747-748 (vd. Gibson 2003, 3-5 ).
357 Andrà anche annotato come il libro si apra proprio sul motivo della congenita mobilità di Amor , fanciullo alato ( Ars 2, 17-20). Nel proemio del libro, però, l’obiettivo dell’innamorato che ha ormai conquistato la propria preda è proprio di inibire questa caratteristica dell’amore – solo nella propria partner , s’intende.
358 Riprendo a questo proposito i risultati di un mio recente articolo: Monella 2005, 125-139 ).
359 Cfr. supra , paragrafo 4.2.3 I luoghi della città come spazio ‘esterno’ all’ethos elegiaco . Labate 1984, 85-87 rende conto di come l’estraneità reciproca tra il mondo incarnato dal Foro e quello dell’amante elegiaco (ancora presente negli Amores – vd. ad esempio Am. 1, 15, 1-7, cui è possibile aggiungere ancora Am. 3, 8, 60-61 e Ars 3, 544-545) sia superata nell’ Ars amatoria attraverso la rivalutazione del Foro quale luogo per la nascita di nuovi amori ( Ars 1, 79-88, cui accosteremo anche 1, 166-169, in cui il Foro Boario, e poi quello Romano, sono trasformati in arene per spettacoli gladiatorî – cfr. Hollis 1977, 62 ) e il recupero della retorica come utile per la persuasione amorosa ( Ars 1, 459-462). Cfr. ancora Pianezzola 1999 (a), 23 e Wildberger 1998, 43 e nn. 67 e 68 . Sulla connotazione fortemente ‘servile’ di questi precetti in particolare mi sono soffermato nel contributo citato sopra (vd. Monella 2005 , 125-139), leggendoli come “una sorta di ‘cerniera’ con la precedente trattazione dell’ obsequium umiliante” per via del parallelismo tra la figura dell’accompagnatore e quelle dell’ advocatus (ancora dignitosa: vd. Janka 1997, 194-195 ), del Begleitsklave , o del cliens che reca al proprio patronus di buona mattina la sua salutatio (cfr. Tib. 1, 4, 41-46; 1, 5, 61-66; Hor. Sat . 2, 5, 16-17). Sulla specifica figura del servus praelucens cfr. Tib. 1, 9, 41-42; Prop. 1, 3, 9-10; 2, 29a, 1-6; 3, 16, 16, e il commento di Baldo in Pianezzola 1991, 298 (che fa riferimento alla figura dei servi adversitores ) . Per un orientamento bibliografico sul servitium amoris restano indispensabili Copley 1947, 285-300 e Lyne 1979, 117-130 , cui vanno aggiunti senz’altro Labate 1984, 194-219 , Conte 1991, 53-52 e l’aggiornata e problematica trattazione di Lucifora 1996, 119-180 .
360 Oltre ai fondamentali intertesti citati, va ricordato per la stretta vicinanza di contenuto e anche di precise espressioni l’analogo consiglio di Priapo all’interno della sua Ars amatoria per l’amore pederastico in Tib. 1, 4, 41-44. Il legame con Tib. 2, 3, nel segno del valore degradante del trasferimento del raffinato amante nel mondo del rus , è saldato dal comune riferimento al mito di Apollo ed Admeto (Tib. 2, 3, 11-28 ~ Ov. Ars 2, 239-242). Non si dimentichi peraltro come in età prealessandrina il ‘declassamento’ del dio in rustico servitore non assumesse le forme di un servitium amoris , bensì quelle di una vera e propria punizione per l’assassinio dei Ciclopi (vd. Copley 1947, 285-288 ; Lyne 1979, 118 ; Janka 1997, 204-206 ; Wildberger 1998, 231 e da ultima Lucifora 1996, 139-140 ).
361 Vd. Wildberger 1998, 239-240 .
362 Strettissimi sono infatti i rapporti intratestuali che questi versi intrattengono con il contesto immediato: il rigetto dei segnes e dei timidi (vv. 233 e 234) rimanda a quello degli inertes al v. 229; l’ambientazione notturna (235) al motivo del servus praelucens (227-228); la hiems (235) alle nives che angustiavano l’ iter dell’amato verso la campagna al v. 232; le longae viae del v. 235, inutile dirlo, allo stesso argomento generale del passaggio (la ‘mobilità’ dell’amante); e infine il sonno sulla nuda terra sotto la pioggia (237-238) richiama il motivo della vigilatio ad clausas foras , nelle più ostili condizioni atmosferiche (vd. ancora il v. 232 qui, oltre ai numerosissimi precedenti elegiaci del topos : Tib. 1, 2, 31-32; Prop. 1, 16, 22; 2, 9, 41-42; Ov. Am. 2, 19, 21-22; 3, 11, 9-10; Ars 2, 524). Sulla particolare declinazione del tema della militia amoris in questo passaggio cfr. il commento di Baldo in Pianezzola 1991, 298-299 .
363 Va da sé che il motivo della pericolosità del viaggio come prova d’amore, affermato tanto in Am. 2, 16 quanto nel passaggio in esame dell’ Ars amatoria , trovi una particolare declinazione in Her. 19, epistola che si immagina scritta da una Ero ignara della morte di Leandro la lettera di Ero a Leandro, e dà luogo in passaggi come 19, 83-89 e 159-162 ad effetti di ‘ironia tragica’. Cfr. le annotazioni di Baldo in Pianezzola 1991, 300 e Janka 1997, 210-211 .
364 Sul peculiare rapporto tra l’ Ars amatoria e l’elegia d’amore vd. Conte 1991, 71 : nel poema didascalico “attori e comportamenti sono quelli dell’elegia ma non rispondono più a quella retorica fatta di prospettive ‘limitate’ e parziali”.
365 Sui rapporti tra il passaggio relativo ai rura nei Remedia amoris e le Georgiche virgiliane vd. Giordano 1992, 89-95 , il quale conclude che “una operazione di questo tipo, mirante ad assegnare al modello agricolo un significato alternativo rispetto a quello che esso aveva nelle Georgiche , per la riduzione di una ideologia sociale, quale era quella dell’opera virgiliana, ad un àmbito individuale, ‘privato’, quale è quello della sfera amorosa, finiva per risultare implicitamente antiaugustea” (così a 95). Mi pare che tale conclusione si possa agevolmente ribaltare, affermando che il recupero dell’ideologia romana della terra (vd. qui supra , nella sezione 1.2 I precedenti romani: i manifesti del ‘catonismo’ ) proprio in funzione ‘anti-elegiaca’, e in stretta relazione con l’intertesto virgiliano, costituisca anzi un uso per nulla dissacratorio di essa (semmai solo scopertamente strumentale). Tale ideologia infatti, oltre a riguardare la dimensione collettiva dello Stato romano per via della restaurazione dei valori quiritari propugnata da Augusto, aveva da sempre riguardato anche la sfera privata. Conte 1991, 82, per parte sua, annota che “l’agricoltura, l’attività economica tradizionale del signore romano [...] è raccomandata come modello di vita in cui i tratti dell’utile quasi cedono di fronte alle proponderanti attrattive estetiche che può offrire una tenuta di campagna”. Anche la fuga nei luoghi selvaggi della caccia vanta una propria tradizione all’interno del genere elegiaco, se almeno nell’ambito della riflessione intorno alle dinamiche di tale genere riconosciamo un ruolo alla decima ecloga virgiliana, e all’immagine di Gallo che, di fronte all’abbandono di Licoride, cerca un’impossibile medicina furoris nella caccia tra i Parthenii saltus (Verg. Buc. 10, 55-60). Né si dimenticherà l’avversione di Sulpicia per l’attività venatoria cui si dedica Cerinto in Ps.-Tib. 3, 9 (vd. la topica opposizione tra Diana e Venere, che ritroviamo in Ov. Rem. 199-200, cfr. Ps.-Tib. 3, 9, 19-20). Sulle molteplici ascendenze letterarie dell’intero passaggio, cfr. Pinotti 1988, 156-157 e le singole note di commento nelle pagine seguenti.
366 Sui rapporti tra Ars amatoria e Remedia amoris vd. almeno Hollis 1973, 84-115 ; Küppers 1981, 2507-2551 e Conte 1991, 53-94 .
367Vd. Labate 1984, passim.
368Cfr. Conte 1991, 53-94.
369 Si potrebbero citare Prop. 1, 6 (la ‘scelta’ di Tullo); 1, 8 (l’Illiria); 1, 17 (la tempesta); forse anche 1, 15; 2, 26a (il naufragio sognato di Cinzia) e 2, 26b (il viaggio degli amanti); 2, 27, 5-6 (riflessione sul tema della morte); 3, 7 (l’epicedio per Peto); 3, 12 (Postumo e Galla); 4, 3 (Aretusa e Licota).
370 Il rimando continuo a questi testi, nonostante la loro (problematica) appartenenza al genere didascalico e la loro estraneità alla dimensione soggettiva ed assolutizzante dell’ eros elegiaco, è reso necessario dal fatto che essi costituiscono un ‘contraltare’ quasi speculare degli Amores e dell’intera esperienza letteraria elegiaca, ed insieme a questi ultimi contribuiscono a disegnare il quadro complessivo della profonda revisione ovidiana delle strutture del genere elegiaco.
371 A titolo puramente esemplificativo potremmo ricordare passaggi quali Ov. Am. 1, 8 (la Via Sacra); 1, 12 (i trivia ); 1, 15 (il Foro); 2, 2 (il portico di Apollo Palatino e il tempio di Iside); 2, 7 (il teatro); 2, 18 (ancora il Foro); 3, 2 (la ben nota elegia del Circo); 3, 9 (Campo e Foro). Ma l’intera prima parte del primo libro dell’ Ars è dedicata peraltro alla ‘caccia’ amorosa nei luoghi della città.
372Un’eccezione a questo assunto è costituita da Ov. Am. 3, 8, elegia per molti aspetti ‘anomala’ all’interno degli Amores per la sua riproposizione dela polemica moralistica a sfondo diatribico.
373Brevi riferimenti si possono trovare in Ov. Am. 1, 8; 1, 13 (da cui è addirittura ogni tono polemico); 1, 15; 2, 1 (sull’inutilità del viaggio di Ulisse, spunto più ironico che polemico); 2, 11 (sulla morte per naufragio – cfr. l’elegia properziana per Peto, 3, 7); 2, 12 (il viaggio di Corinna, puro e semplice προπεμπτικόν, meno patetico di Prop, 1, 8); 3, 2 (ancora brevemente sulla navigazione); 3, 8 (età di Saturno e viaggi); 3, 9 (cenno alla Feacia di Tibullo); 3, 11 (Ovidio richiamato dalla ‘tentata fuga’, un po’ come in Prop, 1, 17).
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