Commento

[120.1] «Quidam»: Come sottolineato da Pepe 1967, 155-162, alcuni argomenti delle controversiae senecane si ispirano alle novelle prodotte in area ionica, ma perdono la freschezza e la genuinità della pura narrazione di evasione per divenire uno scarno riassunto dei motivi di conflitto tra le parti in causa. Le caratteristiche del genere novellistico sono state rintracciate da Pepe 1967, 34-36 nell'aderenza alla realtà 'borghese' e al rilievo dato agli aspetti umani (differenziandosi dunque dalla fiaba, dal mito e dall'epica, le cui caratteristiche principali sono lo spazio assunto rispettivamente dal meraviglioso e dal divino); e nel suo essere breve racconto di evasione, che non contiene più riferimenti politici e/o religiosi. La trama di questo argumentum presenta motivi che possono essere ricondotti o a un prodotto di un artista particolarmente versato nell'arte della novellistica o a una derivazione da una fonte di gran pregio: la presenza della uxor formosa che, tentata, si mantiene casta e che potrebbe assurgere a exemplum; il motivo del viaggio che viene compiuto sia dal marito (personaggio di poco o nullo spessore) sia dal mercante; l'ambientazione presumibilmente cittadina. Pepe 1967 inoltre afferma che nel chiuso delle scholae dovevano esserci stati dei bravi novellieri, il cui ingegno si è progressivamente inaridito a contatto con un ambiente sterile e perciò novelle degne di questo nome non sono pervenute per incuria. Mi sento di dissentire con lo studioso per una serie di motivi: innanzitutto non possiamo sapere se chi ha composto gli argumenta abbia effettivamente scritto novelle, poiché, a mia conoscenza, non sono pervenute testimonianze di raccolte prodotte in ambito declamatorio, ma questo non vuol dire che non siano esistite e poi il tempo ne abbia cancellato traccia; in secondo luogo le scuole di declamazione presentavano un dibattito culturale ampio e piuttosto vario, se si pensa che sono stati rintracciati stilemi comici, tragici, elegiaci, storici nelle raccolte di Seneca il Vecchio e dello pseudo-Quintiliano; inoltre bisogna prestare attenzione alla funzione che gli argumenta assumono nell'antologia senecana, e cioè di traccia che il maestro forniva per permettere agli studenti di esercitarsi. La funzione 'narrativa', se vogliamo definirla tale, secondo il mio punto di vista non è qui assunta dall'argumentum ma dalla declamazione stessa, che permette al retore di sviluppare una parte della 'storia' tramite l'etopea. Proporrei quindi di non considerare gli argumenta come un inaridimento della novella, ma piuttosto di vedere una sinergia che permette anche a questo genere letterario di far parte della declamazione, senza dimenticare che il nostro punto di vista è basato sulle testimonianze che possediamo e queste costituiscono una minima parte di quanto sia stato dibattuto all'interno delle scholae.

[120.1] «Formosam»: Aggettivi come questo, con valore connotativo e potenzialmente allusivo, erano generalmente evitati dai maestri che sottoponevano gli argomenti agli allievi: da ciò possiamo arguire che la bellezza della donna poteva costituire uno degli elementi romanzeschi di una ipotetica novella (perduta), che ha fornito lo spunto per il thema della controversia.

[120.2] «Peregrinus mercator»: A causare un forte squilibrio all'interno della domus è un personaggio che si pone all'attenzione per la sua condizione sia di straniero sia di mercante. Espressione di una professione redditizia e tuttavia non priva di pregiudizi nel mondo antico, il nuovo arrivato è fortemente connotato per la sua estraneità al tessuto sociale urbano, presso cui presumibilmente si svolge la vicenda. Egli è uno straniero ricco che viaggia per lavoro e per ciò stesso si pone al di fuori della linea di confine rassicurante della civitas; inoltre sfrutta la parola per blandire i clienti e convincerli a comprare le sue merci e può ben usare le sue doti oratorie e le ricchezze accumulate per corteggiare: dunque si presenta sulla scena con una nota stonata, che lo rende immediatamente sospetto agli occhi e alle orecchie di coloro che assistono al dibattimento fittizio.

[120.3] «De stupro»: Come chiarito da Brescia 2012, 34-35 e 2015, 75-76, in latino il termine stuprum indica un rapporto illecito, che si può configurare come extraconiugale oppure tra un individuo di sesso maschile e una virgo o un rapporto omoerotico; nella fattispecie si può rilevare come il significato assunto in questo contesto sia da ricondurre a quello di adulterium, il cui significato viene esplicato magistralmente da Isidoro di Siviglia in Origines 5.26.14 come inlusio coniugi, quod quia alterius torum commaculavit, adulteri nomen cepit. L'importanza di mantenere intatto il legame coniugale e la discendenza fa sì che nella legislazione romana l'adulterio venga ritenuto un crimen commune, compiuto quindi da entrambi gli agenti, e venga dedicato ampio spazio alla necessità di stabilire il grado di colpevolezza della donna o la sua innocenza, se il fatto non sussiste; in caso di comprovata violenza ai danni di una virgo o di un puer (dunque soggetti deboli), il caso riguardava l'intera comunità e veniva rubricato come crimen de vi publica, regolamentato dalla lex Iulia de vi publica, di cui possediamo testimonianze più tarde nelle opere dei giuristi Marciano (14 Institutiones, Dig. 48.6.3.4) e Ulpiano (4 de adulteriis, Dig. 48.5.30 (29).9). Lo stuprum/adulterium è sempre una macchia all'onore del tutore della virgo (il padre) o della matrona (il marito).

[120.3] «Negavit»: L'innocenza della donna viene chiaramente affermata dal maestro che ha elaborato il thema, tuttavia il processo fittizio potrebbe presentare un esito ben differente e la donna potrebbe essere condannata per adulterio.

[120.5] «Ex suspicione»: Il thema ha soprattutto la funzione di esplicare lo status (o constitutio), cioè la questione su cui verteranno le controversiae dei declamatori. Esistono diversi tipi di status con le relative prescrizioni su come debba essere impostato il discorso, nel nostro caso si tratta di una causa coniecturalis, ovvero bisogna stabilire la sussistenza del fatto: se la donna abbia commesso o meno l'adulterio.

[120.6] «Porci»: Fu grande amico di Seneca il Vecchio, il quale lo inserisce nel tetraedum (Contr. 10 Praef. 13), cioè l'insieme dei quattro migliori declamatori dell'epoca (Arellio Fusco, Albucio Silo e Giunio Gallione). La sua fama come miglior maestro di retorica viene testimoniata da Vozieno Montano (Contr. 9 Praef. 3) e da Quintiliano (Inst. 10.5.18). Nacque a Cordova tra il 58 e il 55 a. C. e morì suicida, forse in Spagna, nel 3 o 4 d. C. La sua eloquenza fu sempre appassionata e sostenuta dal suo temperamento vigoroso, ma al tempo stesso limpida e chiara. Tuttavia era nota la sua inadeguatezza al dibattito forense, di cui una testimonianza ci viene fornita dallo stesso Seneca in Contr. 9 Praef. 3, dove Vozieno Montano narra che egli, al momento di difendere un suo congiunto in tribunale, si sentì talmente spaesato da incominciare il discorso con un solecismo e da essere costretto a interrompere, finché non ottenne che la causa venisse spostata dal luogo aperto del foro alla basilica; ciò manifesta la scarsa attitudine dei retori e in particolare di Latrone nel dibattere al di fuori del luogo chiuso della schola.

[120.6] «Quamquam»: Nell'exordium della controversia Latrone veste i panni del marito, che accusa la moglie di adulterio. La finalità dell'esordio è spiegata da Cicerone in Inv. 1.20.1 come oratio animum auditoris idonee comparans ad reliquam dictionem: quod eveniet, si eum benivolum, attentum, docilem confecerit; e, con maggiore pregnanza, da Quintiliano in Inst. 4.1.5: certe prohoemium est quod apud iudicem dici prius quam causam cognouerit possit, uitioseque in scholis facimus quod exordio semper sic utimur quasi causam iudex iam nouerit. L'esordio dunque è per Cicerone il 'biglietto da visita' dell'oratore, che deve presentare per la prima volta la causa ai giudici in modo tale da accattivarsi la loro benevolenza e attirare la loro attenzione; ciò che accadeva nelle scuole di retorica era invece l'esatto contrario: stando alla testimonianza di Quintiliano, poiché la causa era nota dal thema, era possibile che il declamatore saltasse passaggi essenziali della presentazione per giungere già nell'exordium al cuore della causa. Analizzando il proemio dal punto di vista stilistico, si nota un'elaborazione intensa dell'esordio: esso inizia con un entimema, ovvero un sillogismo in cui è sottintesa una delle parti (in questo caso la conclusione). La premessa maggiore è che i costumi della città sono corrotti; la premessa minore è che in questo clima sarebbe naturale vedere adulteri ovunque; la conclusione, taciuta, è che gli ascoltatori potrebbero essere portati a pensare che il marito sia eccessivamente sospettoso.

[121.2] «Nimiam patientiam…»: Secondo Berti 2007, 54, il marito qui sottintende una discolpa dall'accusa di lenocinium, ovvero allontana da sé l'accusa che, secondo la lex Iulia de adulteriis, avrebbe colpito il marito a conoscenza dell'adulterio della moglie, che non avesse preso i provvedimenti necessari. Costituirebbe una giustificazione per la denuncia tardiva: stupito dall'ingente patrimonio acquisito dalla consorte, avrebbe atteso di riprendersi dallo shock di essere tornato in una casa che non riconosce.

[121.4] «Divitem»: L'accusa per adulterio non sarebbe mai stata formulata, se non per le 'prove' materiali dell'ingente lascito del mercante. Viene qui ribadito un topos molto diffuso nell'antichità, ovvero quello dell'avidità femminile: la donna è avida per natura, sempre in cerca di ricchezze da ottenere con la frode. Questo luogo comune lo ritroviamo anche nell'elegia: la donna amata dal poeta è avida ed esosa, poiché gli chiede ricchi doni, che egli non può permettersi; allora la fanciulla cerca un amante in grado di soddisfare la sua fame di ricchezze e abbandona il poeta, in spregio ai vincoli che li legavano. In particolare, notiamo che in Prop. 2.16.15 compare il verbo mercor in riferimento all'acquisto di amore in cambio di munera: Cinzia preferisce un praetor ricco, che la ricopra di doni, al poeta povero, che si chiede quali doni potrebbe mai raccogliere per la sua amata (Prop. 2.16.4). Ma Properzio non è l'unico poeta a sottostare ai capricci della fanciulla: Ovidio in Am. 1.10 lamenta che i munera richiesti dalla donna amata sviliscono il puer Amore. Topos dunque che qui non cessa di esercitare la sua influenza negativa: più avanti nella controversia noteremo altri spunti tratti dal'universo elegiaco.

[121.5] «Peregrinatus sim»: Berti 2007, 54 sostiene che il marito sia anch'egli un mercante, partito per affari. In effetti non viene specificato il motivo della partenza dell'uomo, nel prosieguo si dice semplicemente che col suo viaggio sperava di accrescere il patrimonio: questo concorre ad aggiungere alla declamazione una indeterminatezza, che non sarebbe stata ammessa in un'orazione forense.

[121.6] «Plus ista…»: Volutamente il retore esagera i pericoli che il marito ha dovuto affrontare per terra e per mare, alla ricerca di un guadagno onesto di cui godere con la moglie, mentre ella, restando in casa, come si conviene a una matrona, ha ottenuto una ricchezza maggiore: ciò provoca stupore e sdegno nel marito-Latrone, che ha viaggiato toto mari senza ricavarne il quaestus sperato. La navigazione intrapresa dall'uomo d'affari è connotata positivamente come uno strumento per contrastare l'ozio.

[121.9] «Cum uxore…»: Non solo il marito ha affrontato pericoli tanto immani quanto indeterminati, ma ha scoperto di aver intrapreso una gara con la moglie, di cui egli non era a conoscenza e di cui la matrona risulta vincitrice. Il motivo del silenzio della donna, della sua presunta reticenza a informare il marito, sarà sviluppato nelle parti successive della controversia e verrà usato come ulteriore prova della sua colpevolezza.

[121.10] «Multiplicatam dotem»: La condanna per adulterio veniva sanzionata con la perdita della sesta parte della dote, che veniva trattenuta dal marito. In questo caso, il marito sospetta che, se la matrona venisse condannata, il lascito del mercante sia talmente sostanzioso da permetterle una vita agiata. Inoltre anche qui si può notare che Latrone dà una vaga idea dell'ammontare complessivo della dote: in un processo reale si sarebbe parlato di cifre e di beni, che qui non possono essere nominati.

[121.12] «Dives amator»: Il topos elegiaco del dives amator è ben presente nel discorso di Latrone. L'amante ricco, che ricopre di doni la fanciulla amata, è antagonista del poeta squattrinato e compare in numerose elegie per beffare il rivale. Lo ritroviamo per esempio in Tib. 1.5.47-48, dove il poeta lamenta che i voti pronunciati per la salute dell'amata sono stati vani per lui ma forieri di speranze per il rivale, che adesso gode del favore di Delia grazie alla callida lena, la mezzana che insegna all'allieva gli artifici per sedurre i corteggiatori ricchi. Non solo Tibullo, ma anche Properzio cade vittima dell'avidità della sua Cinzia, che in 2.16 segue un praetor ricco e ottiene in cambio doni ricchissimi e preziosi, che mai il povero poeta potrà contraccambiare se non con i suoi carmi. Con l'eccezione del personaggio della lena, troviamo presenti nella controversia i topoi elegiaci che segnano il distacco della fanciulla dall'amante-poeta squattrinato: la matrona rappresenta la donna che cede all'avaritia e accetta la corte del sollicitator, il mercante impersona il dives amator che si procura il favore della moglie, e infine il marito svolge il ruolo del tipico amante elegiaco, povero e deluso dall'avidità della sua amata. Certo è che il cultus, costituito generalmente da tessuti raffinati (le vestes Coae di Prop. 4.5.57), vasellame, oro, argento e pietre preziose (cf. Tib. 2.3.49-58), che attrae le donne (e in particolare le fanciulle cantate nelle elegie), è indicato solo genericamente dal retore come ricchezza che sommerge il marito innamorato, prostrato dalla rottura dei patti d'amore (credo di potervi ravvisare una punta di sarcasmo). Mi sembra chiaro che Latrone abbia attinto al lessico elegiaco e alle situazioni offerte dalla poesia amorosa, riproponendo nella declamazione topoi riconoscibili a un occhio attento; quale sia il grado di conoscenza dell'universo elegiaco del declamatore, non sono in grado di determinarlo.

[121.14] «Quae»: Comincia qui la narratio, che si estende per l'intero paragrafo. A proposito di questa parte del discorso Cicerone in Inv. 1.28 scrive: Nunc de narratione ea, quae causae continet expositionem, dicendum videtur. oportet igitur eam tres habere res: ut brevis, ut aperta, ut probabilis sit. La sua testimonianza è a mio avviso una delle più esaurienti: oltre a fornire sinteticamente le nozioni principali, come riportato sopra, l'arpinate estende la sua descrizione nei paragrafi 28-30. La caratteristica precipua della narratio è la brevitas, che porta l'oratore a riassumere i fatti principali in modo tale che, anche se ci fosse qualcosa di non detto, si potrebbe intendere facilmente dal discorso (Inv. 1.28.10). La chiarezza postulata da Cicerone va intesa sia come chiarezza espositiva sia come narrazione ordinata degli eventi, che deve rispettare l'ordine cronologico dei fatti. L'ultima peculiarità riguarda le prove che devono essere fornite (Inv. 1.29.10-20): l'oratore realizzerà una descrizione oggettiva del luogo del reato, dell'opportunità, dei mezzi, delle cariche pubbliche ricoperte dalle parti e soprattutto egli deve essere in grado di conformare la situazione alla natura di coloro che intentano il processo, ai costumi del popolo e infine all'opinione degli ascoltatori. Tornando al nostro caso, la narratio è estremamente breve per diversi motivi: la vicenda si svolge interamente durante l'assenza del marito ed egli ne viene a conoscenza solo successivamente; e anzi l'unica prova che può sostenere la sua argomentazione è l'eredità ricevuta dalla moglie. Non mancano di certo nel discorso del declamatore le caratteristiche individuate da Cicerone ed esaminate in precedenza: è breve, limpida e, fatta salva l'ovvia assenza delle cariche pubbliche che una donna e uno straniero non avrebbero mai potuto ricoprire, sono presenti le descrizioni dei costumi del mercante e dell'opportunità, dei mezzi, del 'movente' del reato ipotizzato.

[121.14] «Scio»: La narratio si apre con una reticentia: il marito tace i precetti impartiti alla moglie alla partenza, perché facilmente intuibili agli ascoltatori o perché ormai resi vani dalla situazione contigente.

[121.15] «Adulescens formosus…»: Il marito-Latrone mette in evidenza alcune caratteristiche del mercator: è un bel giovane, ricco, sconosciuto nella non meglio precisata città in cui si svolge la vicenda. Pur non avendo mai visto il rivale (nell'argomento è specificato che il mercante è deceduto prima del suo ritorno), egli ne delinea un ritratto che enfatizza qualità poste solamente al negativo: la sua bellezza è speculare a quella della matrona; la sua ricchezza è fonte di sospetto perché finalizzata alla corruzione dei mores; inoltre egli è escluso dal tessuto sociale urbano e ulteriormente spinto ai suoi margini dalla descrizione esagerata del declamatore. In poche, impietose parole il retore cerca di condurre il suo uditorio nella squalifica del rivale.

[121.16] «Nimium liberae…»: Nelle culture antiche la presenza di un tutor, che svolge il ruolo di custode delle donne poste sotto la sua tutela, era fondamentale per arginarne la libertà, che poteva sfociare in un'assoluta sfrenatezza a causa della natura debole e viziosa. D'altronde l'opposizione buona/cattiva matrona è esemplarmente incarnata da quella Lucrezia/regiae nurus, la cui vicenda è nota. L'assenza del marito è stata sfruttata come argomento difensivo dalla pars altera, di cui abbiamo notizia dagli excerpta (Contr. excerpta 2.7): sine viro fuit: hoc maritus peccavit. La scarna sententia ha come fine quello di redistribuire le responsabilità a favore della matrona.

[121.18] «Interrogate rumorem»: Latrone spinge i giudici a interrogare il rumor, che, come dotato di vita propria, si è diffuso in città e costituisce la prova più schiacciante dell'adulterio. D'altronde la possibilità di ricorrere ai rumores è prescritta da Cicerone in Inv. 2.46, dove l'oratore consiglia di servirsi delle dicerie unitamente alle quaestiones e ai testimonia (Inv. 2.46.5). Quintiliano in Inst. 5.3 dà una vivida descrizione delle partes che adoperano i rumores e la fama nelle loro orazioni: naturalmente una pars se ne servirà come indicazione del consensum civitatis et velut publicum testimonium; mentre la pars altera lo bollerà come un discorso infamante, cui malignitas initium dederit, incrementum credulitas.

[121.21] «Nam causam…»: Come rilevato da una nota precedente per l'exordium (cf. 120.6 Quamquam), anche la narratio è caratterizzata dalla brevità proprio perché le cause erano già note dal thema e dunque non era necessario dilungarsi oltre il dovuto.

[121.22] «Tempus est»: Alla narratio segue l'argumentatio, che si estende dal pr. 3 a metà del pr. 9. Essa è il cuore dell'orazione, in quanto l'oratore argomenta in difesa o in accusa. Si suddivide in due parti: la confirmatio, in cui il patronus dimostra mediante prove la validità della sua argomentazione, e la reprehensio, in cui controbatte alle possibili obiezioni della pars altera. Come Cicerone illustra in Inv. 1.34.10-11, la confirmatio si basa su due tipi di argomentazioni: una ex personis, in cui si passano in rassegna la famiglia, i beni e il comportamento dell'assistito e/o dell'accusato; l'altra ex negotiis, che concerne propriamente i fatti del dibattimento. La reprehensio vera e propria è assente nel discorso di Latrone, tuttavia è rintracciabile in alcuni passi (pr. 5 e 8). La sua assenza, testimoniata da Seneca il Vecchio (cf. Contr. 10.5.12), è una caratteristica propria della schola, poiché i retori erano soliti declamare una volta sola; nel foro invece l'accusatore doveva parlare due volte (actio prima e secunda) e ciò gli permetteva di concentrarsi nel primo caso sul proprio discorso e nel secondo sulla confutazione della pars altera.

[121.22] «Concedo mulierem»: Comincia qui una lunga argomentazione, che il retore conduce attraverso una precisa parte del discorso, la descriptio. È Quintiliano a testimoniare la sua nascita all'interno delle scholae (cf. Inst. 4.3.2.2: natum ab ostentatione declamatoria) e a classificarlo come una pratica deleteria che stava infettando anche il foro; alcuni retori infatti erano soliti inserire forzatamente le descriptiones nelle loro declamazioni e soprattutto nei luoghi meno opportuni. Capitava anche che fossero dei pezzi di bravura, che potevano circolare indipendentementemente dalla declamazione in cui erano inserite. Nel nostro caso, Latrone si dimostra abile a inserire una descrizione di matrona virtuosa e una dell'opposto, utili a definire nell'uditorio i parametri con cui la moglie deve essere giudicata.

[122.3] «Matrona»: La descrizione della matrona domiseda costituiva il prototipo a cui ogni donna sposata doveva conformarsi. Latrone cita una serie di luoghi comuni, come il rivolgere lo sguardo a terra o l'essere accompagnata da una schiera di donne, la cui veneranda età avrebbe dovuto inculcare rispetto anche nel libertino più impenitente; inoltre, come rileva Lentano 1998, 118 (nota 29) in necessaria resalutandi vice, sia al ius osculi, la consuetudine che prevedeva che i parenti maschi fino al sesto grado baciassero una donna sulla bocca.

[122.12] «Prodite»: L'altra faccia della descriptio è costituita dal prototipo della cattiva matrona, il cui atteggiamento, il modo di parlare, il modo di vestirsi sono spie della propria disponibilità all'adulterio. La scelta di Latrone è stata quella di impiegare la sua consumata arte per condurre l'uditorio ad assentire: nessuno avrebbe potuto respingere le due descriptiones, poiché condotte sul piano generale dei mores e perciò condivisibili. Berti 2007, 63 fa notare che vi è una coincidenza tra i precetti di Ovidio e la descriptio della matrona impudica: in Ars 3.421-424 il poeta consiglia di esaltare in pubblico la bellezza, rimarcando anzi l'impegno che una donna dovrebbe profondere nella cura del proprio aspetto fisico (cf. Ars 3.423-424); e se poco prima (Ars 3.101-102) aveva esaltato il cultus dell'epoca presente, in Ars 3.513-514 enuncia il rovesciamento del prototipo della matrona perfetta, delineato anche da Latrone nel paragrafo precedente, suggerendo con forza il comportamento da adottare: Spectantem specta, ridenti mollia ride: / Innuet, acceptas tu quoque redde notas. Più che rintracciare contatti con il mondo elegiaco, credo che l'argomentazione di Latrone si basi sul convicium saeculi, quell'insieme di luoghi comuni sull'epoca presente, inevitabilmente deteriore rispetto al passato.

[122.18] «Internuntium»: Comincia un nuovo paragrafo che concerne propriamente il comportamento della moglie: l'uditorio, preparato opportunamente dalle descriptiones di atteggiamenti comuni alle donne pudiche e a quelle impudiche, potrà essere in grado di decodificare i segnali lanciati dal retore-marito sull'impudicizia della moglie. Latrone pone come realtà, tramite la sequenza dei perfetti indicativi, ciò che non sembra essere effettivamente accaduto: grazie a questo espediente il declamatore enuncia programmaticamente come la moglie avrebbe dovuto comportarsi. Se infatti una donna bella non può non essere soggetta alle attenzioni dei sollicitatores, la sua condotta irreprensibile è manifesta soprattutto da un atteggiamento di totale chiusura. La moglie avrebbe dovuto fare flagellare l'internuntius e implorare il marito assente: questo è ciò che ci si aspetta da una matrona pudica e, come rivelano le parole del declamatore, ciò non si è verificato, perché nessuno si sarebbe azzardato a ritornare dopo un'accoglienza del genere.

[123.3] «Impudicissima spe…»: Torna qui il topos dell'avidità femminile in un crescendo di domande retoriche, che sono rivolte direttamente alla matrona (da notare l'uso della seconda persona singolare). Il marito chiede infatti con chi si sia lamentata e la mancata risposta non può che produrre argomenti sull'impudicizia della donna: il silenzio, che vedremo essere una componente fondamentale del codice etico femminile, viene qui interpretato come un artificio per ottenere un premio più grande. Il semplice aver detto di no, che ritorna con lo stesso verbo dell'argumentum, nego, da solo non basta se non è accompagnato dalla fiducia che la moglie ripone nelle capacità del marito di proteggere dall'iniuria la propria casa.

[123.7] «Miserrimus»: La sententia Miserrimus omnis saeculi maritus ha un forte sapore icastico; il paragrafo si conclude con l'amara notazione che l'adulterio non sarebbe stato svelato, se il mercator non avesse lasciato una traccia così consistente nel testamento. Torna nuovamente il silenzio come spia di un comportamento scorretto: la donna non ha rivelato le attenzioni, di cui era oggetto, al marito, mentre il mercante manifesta la sua passione con un documento pubblico, quale è il testamento.

[123.12] «Rogata stuprum…»: Ho accennato al silenzio come codice etico prettamente femminile, adesso analizzerò la questione attenendomi al caso presente. Brescia 2012, 43-44, a proposito della controversia in esame, nota che sembra rovesciato il suddetto codice di comportamento: la studiosa rileva infatti che l'invito del marito a denunciare lo stuprum contrasta col silenzioso modello femminile incarnato da Lara/Tacita. La storia della ninfa Lara, che, a causa dell'uso scorretto della parola, viene privata della lingua da Giove e non può denunciare la violenza subita da Mercurio, viene narrata in Ov. Fasti 2.571-616 e costituisce il paradigma a cui una matrona deve attenersi per l'uso corretto della parola e del silenzio. Sembra quasi che il marito abbia qui inserito una deroga in questo codice di comportamento, tuttavia si tratta soltanto di una deroga parziale: se è vero che una donna deve osservare il silenzio per mostrare la sua pudicitia, è altrettanto vero che la sua voce può essere udita tramite quella del tutore legale (il padre o il marito), che hanno l'obbligo di salvaguardare l'onore della figlia e/o della moglie (il caso di Lucrezia è emblematico).

[123.14] «Quid»: Utilizzando la figura della praeteritio, Latrone finge di non voler menzionare i beni che la moglie ha ereditato, ma richiama l'attenzione su di essi: non a caso il paragrafo si è aperto con l'esortazione a esaminare il census della donna, la prova più evidente dell'adulterio; nella domus l'ingente eredità ha sommerso i beni e lo stesso marito, che non riesce più a riconoscere la propria casa. La praeteritio è inoltre adoperata perché non possono essere passati in rassegna beni che in realtà non esistono, per cui viene superata la difficoltà di dover inventare il patrimonio ereditato. Da rimarcare è anche l'uso dell'avverbio: secondo l'Oxford Latin Dictionary s. v. singillatim è composto dall'aggettivo singuli + la desinenza -im e ha il significato di one by one, singly, separately. Insieme alla variante singulatim, è attestato nella letteratura latina sin da Plauto (Trin. 881) e adoperato nell'accezione di 'enumerare singolarmente e separatamente' (cf. Iust. Digesta Iustiniani 4.6.26.9.4: nec singillatim enumerari potuerunt [scil. casus]).

[123.16] «'sola heres…»: Il lessico utilizzato è quello del diritto privato riguardo la dichiarazione dell'erede (o degli eredi). Seguono nella declamazione di Latrone le motivazioni, per cui il mercator ha deciso di nominare la matrona come unica erede: grazie all'anafora, il retore ripercorre i tre tentativi di seduzione, che vengono ripresi e ampliati dalla scarna notizia del thema, e integra il pudicam repperi dell'argumentum con l'impossibilità del mercante di indurre la donna all'adulterio. Saranno tre le riletture del testamento del mercante, che in una climax ascendente ampliano il concetto che Latrone vuole imprimere nelle menti degli ascoltatori: il mercante, libertino impenitente ormai acclarato, non ha il diritto di parlare a proposito della pudicitia.

[124.1] «Ex testamento…»: In un rovesciamento di prospettiva, il marito annuncia che, in procinto di morire, le sue ultime volontà potrebbero essere accompagnate da un elogio, che non può che ricalcare paradossalmente quello del mercator: viene così a delinearsi una situazione paradossale in cui un adulter è più affidabile del marito. L'ironia sottesa all'intero paragrafo prepara in realtà a quella manifesta del prossimo. Si è già rimarcato nella nota precedente che l'espressione sola heres esto (123.16) ricalca la constitutio heredis del testamentum per aes et libram, che, come Amelotti 1966 puntualizza per la struttura dei testamenti ritrovati nelle province (soprattutto in Gallia e in Egitto), ricalca il linguaggio sacrale del diritto, che dunque si pone per la sua ritualità nel solco della legislazione romana più arcaica (ad esempio le Leggi delle XII Tavole). Sviluppatasi dalla mancipatio familiae, attraverso cui il redattore trasferiva il patrimonio a un fiduciario deputato ad adempierne le ultime volontà, il testamentum per aes et libram,la più diffusa forma di testamento in età classica, influenza grandemente la società latina, che, riprendendo le tesi di Champlin 1989, vive la lettura di un testamento come un fenomeno di aggregazione sociale; lungi quindi da essere un semplice atto privato, la lettura di un testamento comportava un sistema di attese per cui la comunità si riconosce non tanto nella semplice trasmissione di beni, quanto nell'atto simbolico dell'eredità e partecipa con chi è stato degno di essere menzionato nel testamento.

[124.3] «'sola heres…»: L'anafora riporta immediatamente l'uditorio alla lettura del testamento, che si configura come ultima e definitiva condanna dell'elogio contenuto in esso. Tutto il paragrafo presenta una forte ironia: il marito si chiede se il mercante non avesse mai avuto una madre, una sorella o una parente pudica e se forse vagava per città straniere alla ricerca di una donna che fosse emblema della pudicitia. E la conclusione non può che essere una sola: l'intero testamento non è valido, perché l'elogio è inconsistente. Champlin 1989, 203, citando tra le altre testimonianze la presente controversia, rileva che l'inserimento di un elogio in un testamento non è infrequente. Questa pratica viene ricondotta dallo studioso al fatto che in generale il testamento è l'espressione più autentica del modo di sentire di un cittadino romano: la menzione di amici e parenti nelle ultime volontà costituisce un modo per rinsaldare e testimoniare i vincoli di amicitia e di parentela; o al contrario, il diseredare un erede naturale (in particolare un figlio) era motivo di squalifica pubblica (cf. Ulp., Dig. 29.3.2: tabularum testamenti instrumentum non est unius hominis, hoc est heredis, sed universorum quibus quid illic adscriptum est: quin potius publicum est instrumentum).

[124.14] «'ego viro…»: Berti 2007, 74 (nota 2) sostiene che questa fosse un'espressione idiomatica, facente parte dei mores: si ribadisce con una sola sententia quel sistema di valori rovesciato dalla presenza estranea di un mercante straniero. Testimoniata da numerose epigrafi funerarie, l'espressione idiomatica ha un suo riscontro anche nella letteratura: degno di nota è il rispecchiamento straniante operato da Ovidio in Ars 1.579-580, in cui anche l'amante deve piacere al marito.

[124.15] «Scribam»: Latrone, con scaltrezza e abilità consumata, inserisce qui una figura testamenti: fingendo di scrivere il proprio testamento, il marito conclude la lunga argomentazione inserendo in un testamento fittizio i punti cardine della declamazione; la moglie viene diseredata, perché, essendo stata molto amata durante l'assenza del marito, non ha rispettato il legame coniugale, ma anzi, amata da un mercante straniero, ha accettato un'eredità che ha infamato lei e la casa. Si chiude così la struttura circolare iniziato dalla prima ipotetica lettura del testamento del peregrinus mercator e finalizzato alla squalificazione dei beni e soprattutto di un elogio, che non ha mai avuto valore.

[124.18] «Vos»: Si conclude qui l'argumentatio: dopo aver presentato le tre letture del testamento del mercante e la propria versione di marito, ingannato e deluso, il retore si rimette alla decisione degli ipotetici giudici; Latrone ha condotto il suo pubblico verso una presa di posizione prima contro la donna e poi del mercante.

[124.20] «Unus»: L'ultimo paragrafo, mutilo delle battute finali, si presenta problematico: Fairweather 1981, 254 ritiene che faccia ancora parte dell'argumentatio, mentre Berti 2007, 75 pensa che si tratti dell'epilogo. Sarebbe utile a tal proposito analizzare la testimonianza di Cicerone, che in Inv. 1.98.1 spiega cosa sia l'epilogus o conclusio: Conclusio est exitus et determinatio totius orationis. haec habet partes tres: enumerationem, indignationem, conquestionem. L'enumeratio consiste nella raccolta di tutti gli argomenti dell'orazione sotto un solo aspetto, in modo tale da rinfrescare la memoria dei giudici (Cic., Inv. 1.98-100.12); l'indignatio è quella parte in cui l'oratore convoglia un forte sentimento di ostilità verso la pars altera o il reato contestato (Cic., Inv. 1.100.13-106.1); la conquestio consiste nella captatio benevolentiae rivolta ai giudici (Cic., Inv. 1.160.3-109.30). Se si analizza l'ultimo paragrafo, si può notare che la ripresa dell'argomento della pudicitia viene a una conclusione naturale: la donna onesta è solamente colei che non fa parlare di sé. Il cambio di tono, che dalla concitazione dell'argumentatio passa a uno più disteso, unito alla disamina di Cicerone sulla conclusio, farebbero propendere per la tesi di Berti 2007, 75: con tutta probabilità questo paragrafo esplicava l'enumeratio, dunque mancherebbero gli ultimi due elementi indicati da Cicerone per poter leggere la declamazione completa.

"Pudicam ille dixit, ego impudicam": un'ipotesi di commento digitale della contr. 2, 7 di Seneca il Vecchio

Federica Barcellona, "Pudicam ille dixit, ego impudicam": un'ipotesi di commento digitale della contr. 2, 7 di Seneca il Vecchio. Tesi magistrale, Università degli Studi di Palermo (A.A. 2016/17). Relatore: Prof. Alfredo Casamento. Correlatore (cura degli aspetti informatico-umanistici): Prof. Paolo Monella. Edizione critica di riferimento per il testo: Lennart Håkanson, L. Annaeus Seneca Maior, Oratorum et rhetorum sententiae, divisiones, colores. Teubner: Leipzig 1989 (Bibliotheca scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana).

Thema


120.1Quidam, cum haberet formosam uxorem, peregre profectus est. In
120.2viciniam mulieris peregrinus mercator commigravit. Ter illam appellavit
120.3de stupro adiectis pretiis; negavit illa. Decessit mercator, testamento he-
120.4redem omnibus bonis reliquit formosam et adiecit elogium: 'Pudicam
120.5repperi'. Adit hereditatem. Redit maritus, accusat adulteri ex suspicione.

Controversia


120.6PORCI LATRONIS. Quamquam eo prolapsi iam mores civitatis sunt, ut
120.7nemo ad suspicanda adulteria nimium credulus possit videri
, tamen ego
121.1adeo longe ab eo vitio iam patientiam aut mium abesse videor, ut
121.2magis timeam, ne quis in me aut nimiam patientiam aut nimium stuporem
121.3arguat, quod tam seram querellam detuli: non accuso adulteram
121.4nisi divitem factam; ex ea domo ream protraho, in qua iam nihil meum
121.5est. Cum ego tam diu peregrinatus sim, nullum periculum terra marique
121.6fugerim, plus ista intra unam viciniam quam ego toto mari quaesii
121.7post tantos impudicitiae quaestus si tacere possum, confitendum habet
121.8in hac me causa afuisse, ut in accessionem patrimoni peregrinando
121.9cum uxore certarem. Illud, iudices, mihi tormentum est, quod notato
121.10iudicio vestro, ut multiplicatam dotem perdat, plus tamen ex quaesto
121.11habet habitura est, quam quantum damnatae perdendum est: tantum
121.12in istam dives amator effudit, ut post poenam quoque expediat fuisse
121.13adulteram.
121.14Quae praeceperim uxori proficiscens, scio. Cetera, quemadmodum
121.15adulescens formosus, dives, ignotus in viciniam formosae et in absentia
121.16viri nimium liberae mulieris commigraverit, quemadmodum adsidua
121.17satietate continuatae per diem noctemque libidinis exhaustis viribus
121.18perierit, interrogate rumorem. Vos interrogo, iudices, quid offici mei fuerit:
121.19poteram ego salvo pudore meo nihil de hereditate suspicari, in quo
121.20etiam nomen auctoris ab uxore doctus sum? Veni nihil aliud quam ut
121.21fortunam meam querar; nam causam melius vos nostis.
121.22Tempus est, iudices, de uxore marito credi. Concedo mulierem
121.23tam formosam amari potuisse; pudica certe sic amari, ne sollicitaretur
121.24potuit
. Neque est, quod dicat: 'non in meo istud arbitrio positum'.
121.25Erratis vos, iudices, si non maius ad sollicitandam matronam putatis
122.1irritamentum spem corrumpendi quam faciem quamvis amabilem visu.
122.2Si tantum in formosa sperari posset quantum placere potest, omnes formosae
122.3in se universos oculos converterent. Matrona, quae tuta esse
122.4adversus sollicitatorum lascivias volet, prodeat in tantum ornata,
122.5quantum ne immunda sit; abeat comites eius aetatis, qua impudici, si
122.6nihil aliud, in verecundiam annorum removendi sint. Ferat iacentis in
122.7terram oculos. Adversus officiosum salutatorem inhumana potius quam
122.8inverecunda sit, etiam in necessaria resalutandi vice multo rubore confusa.
122.9Sic se in verecundiam pigneret, ut neget longe ante impudicitiam
122.10suam ore quam verbo. In has servandae integritatis custodias
122.11nulla libido inrumpet
.
122.12Prodite mihi fronte in omne lenocinium composita, paulo obscurius
122.13quam posita veste nudae, exquisito in omnes facetias sermone, tantum
122.14non ultro blandientes, ut quisquis viderit non metuat accedere; deinde
122.15miramini, si, cum tot argumentis impudicitiam praesumpserit, cultu, incessu,
122.16sermone, facie, aliquis repertus est, qui incurrenti adulterae se
122.17non subduceret!
122.18Internuntium, puto, illa sollicitatoris arripi et denudari iussit, flagella
122.19et verbera et omne genus cruciatus poposcit, in plagas deterrimi
122.20mancipi vix imbecillitatem muliebris manus continuit
. Quotiens absentis
122.21viri nomen imploravit, quotiens, quod non una peregrinaretur, questa
122.22est! Nemo sic negantem iterum rogat.
123.1Cum quo questa es? Apud quem indignata es? Abunde te in argumentum
123.2pudicitiae profecturam putas, si stuprum tantum negaveris, quod
123.3plerumque etiam impudicissima spe uberioris praemi de industria simulat?
123.4Quando de iniuria tua viro scripsisti et, ne in occasionem similis
123.5iniuriae solitudo tua pateret, maturiorem reditum rogasti? Et quanto decentius
123.6contumeliam penetralium meorum uxoris epistula quam testamento
123.7sollicitatoris cognoscerem! Miserrimus omnis saeculi maritus: sic
123.8contempta absentia mea etiamnunc iniuriam meam nescirem, si qui fecerat
123.9tacere voluisset.
123.10Totiens sollicitata non iram in istam faciem, qua placere poteras,
123.11convertisti? Non omne ornamentum veluti causam talis iniuriae execrata
123.12es? Quod proximum est a promittente, rogata stuprum tacet!
123.13Inspicite adulterae censum: ex eo impune est, quod adulter isti dedit.
123.14Si est aliquid, quod non dederit, quid singillatim omnia percenseo?
123.15Quicquid ego agnovi meum, do tibi; miser maritus cum omni censu
123.16meo inter munera adulteri lateo. 'Sola heres esto.' Quid ita? 'Habes', inquit
123.17'scripsit causas: quia, cum semel appellassem, cum iterum appellassem,
123.18cum
tertio appellassem
, non corrupi'. O nos nimium felici et aureo,
123.19quod aiunt, saeculo natos! Sic etiam qui impudicas quaerunt pudicas
123.20honorant?
'Omnium bonorum meorum, omnis pecuniae meae sola
123.21heres esto, quia corrumpi non potuit, quia tot sollicitationibus expugnari
123.22non potuit, quia tam fideliter pudicitiam custodivit
.' Tace paulisper
123.23nomen auctoris
: numquid non testamentum viri creditis? Ecce nullam
123.24in uxore suspicatus infamiam, inter mutuum eius amorem (aut certe
123.25ita creditum) iam moriturus tabellas occupare si volo et invicem
124.1muneribus meis imponere elogium, ex testamento adulteri petendum
124.2est.
124.3'Sola heres esto, quamvis aliena, quamvis ignota, tantum quia pudica,
124.4quia incorrupta
est.' Quid? Isti tam censorio adultero non mater est, non
124.5soror, non propinqua
? An nulla earum pudica est? Idcirco scilicet cum
124.6tantis divitiis peregrinas urbes in honorem pudicitiae ignotae perambulat:
124.7illic, ubi natus est, nulla pudica erat, atque illic, ubi negotiatus, quia
124.8nulla non prostituta erat, vacuo testamento pudica heres per errorem
124.9quaesita est.
124.10Ego adulteram arguo, qui in matrimonium recepi, qui communis ex
124.11ista liberos precatus sum, qui pudicam libentissime crederem
. Adeone
124.12iam ad omnem patientiam saeculi mos abiit, ut adversus querimoniam
124.13viri uxor alieno teste defendatur? At hercules adversus externorum
124.14quondam opiniones speciosissimum patrocinium erat 'ego viro placeo'.
124.15At ego, si hunc morem scribendi recipitis, in conspectu vestro ita scribam:
124.16uxor mea heres ne esto, quod peregrinante me adamata est, quod heres
124.17ab adulescente alieno ac libidinoso relicta est, quod tam infamem hereditatem
124.18adit. A duobus vos testamentis in consilium mitto: utrum secuturi
124.19estis? Quo ab adultero absolvitur an quo damnatur a viro?
124.20Unus pudicitiae fructus est pudicam credi, et adversus omnes inlecebras
124.21atque omnia delenimenta muliebribus ingeniis est veluti solum ac
124.22firmamentum in nullam incidisse fabulam. ✝novos fortasse non in omnium
125.1existimationem ocure et horrendum multa deinde ab variae daturis
125.2experimenta.✝ feminae quidem unum pudicitia decus est; itaque ei
125.3curandum est esse ac videri pudicam...