Playlist
Partiamo da Palermo alle 6.50 AM (ora italiana) e arriviamo a Boston all'1.30 PM (ora locale). Ma restiamo bloccati a Boston. Si aspetta la tempesta di neve e tutti i voli sono cancellati. Notte in albergo: il Four Points by Sheraton di Boston. Non possiamo andare a visitare il centro della città, anche se vogliamo. L'autista del van dell'albergo si rifiuta di portarci fino alla fermata della metro. Dice che molte strade sono bloccate per la neve. Cena al Chicago Steak nella tormenta. Provo a ritirare, ma il mio Bancomat italiano non funziona. La sera ci addormentiamo con la tormenta fuori dalla finestra.
12.00 (mezzogiorno). Lasciamo l'hotel per l'aeroporto Logan di Boston. Dobbiamo prendere il volo per New York delle 2 PM, ma lì scopriamo che di nuovo il volo è cancellato. Ci mettono su un altro volo che dovrebbe partire alle 4 PM. Non parte neanche quello. Ci prenotano per un altro volo tra due giorni. Non ci stiamo. Col wireless gratuito dell'aeroporto andiamo su internet e compriamo online a 30 dollari due biglietti per il bus Fung Wah delle 5 PM per New York. Con un autobus locale raggiungiamo la stazione centrale di Boston da cui partono anche i bus extraurbani. Sono le 4 PM. Lì scopriamo che non partono neanche i bus. I cinesi si limitano a darci un numero di telefono per chiedere il rimborso. Troviamo tre italiani: Andrea, Linda, Nicola. Tutti di Cagliari. Affittiamo su proposta di Nicola una macchina all'Enterprise. Ora sono le 5 PM. Guideremo fino a New York e restituiremo lì la macchina. La macchina per un giorno costa $70, più $200 per lasciarla in una città diversa, più $30 di assicurazione. Dividiamo i costi e partiamo verso le 5.20 PM. Guido io. Cena in un Mac Donald in autostrada. Nevischio e vento forte sulla strada. Le braccia sul volante sono tese, ma cerco di non farlo vedere agli altri. I quali viaggiano strettissimi con sulle ginocchia le valigie che non sono entrate nel bagagliaio. Arriviamo verso le 10.30 PM. New York è piena di neve. Lasciamo Nicola a Manhattan. Vive qui da 3 anni e ha un ristorante italiano. A Manhattan si circola bene. Gli spazzaneve fanno il loro lavoro. Proviamo a lasciare gli altri due compagni di viaggio, Andrea e Linda. Si tratta di una coppia che starà ospite dalla cugina di lei a Brooklyn. Ci inoltriamo nel cuore di Brooklyn senza navigatore e senza mappa. Qui le avenues sono quasi tutte percorribili, ma le streets sono impraticabili per la neve alta. Quasi nessuno per strada. Siamo praticamente persi dalle parti di Avenue X e Ocean Avenue. Scopriremo poi che eravamo finiti dalle parti di Coney Island. Chiediamo a qualcuno come arrivare alla Bay 14th Street, dove abita la cugina di Linda, e tutti fanno una faccia strana dicendoci che è lontano. Mi infilo in una stradina in cui restiamo bloccati per via di un suv davanti a noi, incastrato nella neve. Provo a rifare tutta la stradina in retromarcia. E resto bloccato io nella neve. Il momento più nero. Ci aiuta un anziano signore russo che sta da quelle parti. Nei giorni successivi scopriremo che quella zona è detta Vecchia Russia. Riusciamo a uscire. Restiamo bloccati di nuovo poco dopo perché è bloccato un camion della nettezza urbana davanti a noi. Retromarcia. Usciamo anche da lì. Torniamo sulla Avenue Y. Ci rifugiamo in un 7/11. Due giovani grassoni ebrei dall'aria poco raccomandabile ci propongono furtivi di farci accompagnare da loro cugino. Ci rivolgiamo invece a due poliziotti che sono entrati. Ma ci dicono che non girano né bus né taxi. Ci sono due taxi abbandonati, uno al bordo della strada, l'altro all'angolo di un incrocio. Entriamo in un altro piccolo grocery store, proprio di fronte al taxi abbandonato. Qui Andrea si fa dare dal gestore indicazioni (prese da Google map) per raggiungere la casa della cugina di Linda. Fermo un tassista che si è fermato al semaforo dell'incrocio. Si rifiuta di accompagnare Andrea e Linda perché è troppo lontano e non se la sente: sta andando a casa. È mezzanotte passata. Ci rimettiamo in macchina seguendo le nuove indicazioni che ha Andrea. Incrociamo un altro tassista e gli chiediamo di accompagnarci. Rifiuta dicendo che strade da quelle parti sono in condizioni pietose e non vuole restare bloccato tutta la notte in qualche stradina. A questo punto capiamo che non arriveremo mai dalle parti della cugina di Linda, e decido di dirigermi verso la zona dove andremo a stare noi, che è meno sperduta, e cercare lì un albergo per Andrea e Linda. Macchine anche della polizia abbandonate in mezzo alla strada. Li lasciamo in un alberghetto cinese, che il giorno dopo scopriremo essere probabilmente di prostitute. Ma in queste condizioni va bene tutto. Arriviamo alla nostra casa di Brooklyn dove ci viene incontro in pantaloncini, nella neve, Bill. Sono le 2 di notte.
Mattina. In giro in macchina per Manhattan. Compro una mappa e uso il wifi da Barnes and Nobles. Compro una bussola. Cerchiamo stivali a prova d'acqua per Marilù. Si può parcheggiare ovunque in una città in un allegro stato di emergenza. Restituiamo la macchina alle 4.30 PM. Giro al Village. Cena con bistecca, più cara di quanto ci aspettassimo. Facciamo l'abbonamento ai mezzi pubblici per 7 giorni a $29. Siamo distrutti: Marilù dorme già alle 7 PM; io tiro fino alle 8 PM.
Mattina. Animati dalle migliori speranze, arriviamo a metà mattinata alla biglietteria del traghetto per la Statua della Libertà. C'è un'ora di fila per i biglietti, più due e mezzo per l'imbarco. Facciamo solo la fila dei biglietti; compriamo un New York City Pass a $79, che include l'ingresso a sei attrazioni, e rimandiamo la statua a domani. Oggi faremo altro. Ci dirigiamo verso il molo da cui parte una mini-crociera intorno a Manhattan, ma finiamo a comprare scarpe waterproof per Marilù da Macy's. Pranzo lungo alle 3 PM. Insalata lei, zuppa io. Ma c'è Internet: quanto ci basta per pianificare stasera e i prossimi giorni. Prenotiamo per stasera da Lips. Metà pomeriggio. Times Square. Finiamo inghiottiti dal negozio Levi's, dove compriamo due paia di jeans a testa. Tardo pomeriggio. Grand Central Terminal. 7.30 PM. Cena e spettacolo da Lips. Tornando a casa: un senzatetto, poveraccio, riempre il vagone della metro di una puzza tale che persino io (non proprio un cane da tartufo, quanto a odorato) mi ammutolisco.
Mattinieri, per una volta: bisogna andare alla Statua della Libertà. Nonostante non siamo fuori prima delle 8.20 AM, arriviamo abbastanza presto alla biglietteria per farci dare, senza fila, un pass per entrare nel piedistallo della statua. I pass sono gratuiti (sono una cosa diversa dal biglietto), ma ne danno un numero limitato per giorno. Traghetto per Liberty Island, dove si trova la Statua della Libertà. Alle 10 AM abbiamo dato un'occhiata alla verde signora sull'isola, e siamo in fila per il piedistallo della statua. Vediamo il museo che contiene. 10.40 AM. In fila per l'ascensore che ascende il piedistallo. Abbiamo dovuto passare i controlli sia prima di imbarcarci sul traghetto sia prima di entrare nel piedistallo. Tarda mattinata. Ellis Island e museo dell'immigrazione. È una mia impressione, o rispetto all'ultima volta che sono venuto (nel 2004) l'audioguida propone una linea 'giustificazionista', cercando di convincerci che sostanzialmente gli immigrati passati di qui sono stati trattati umanamente? 1.30 PM. Pranzo a Ellis Island. Io sono diventato un aficionado della zuppa. 3.00 PM. In metro per Canal Street, Chinatown. 3.50 PM. Mulberry Street. Cercavamo Chinatown e finiamo (in quel che resta di) Little Italy. Quando ero venuto sei anni fa mi era successo il contrario. Ristoranti italiani lungo la strada. Entriamo in un negozio di souvenir (souvenir anche italiano-americani) gestito da cinesi. Però ad avvalorare la tesi di Marilù (che Little Italy esista ancora), compare un ragazzo italoamericano a darci indicazioni. Quante persone in questi giorni, vedendoci in metro o ad un incrocio con la mappa in mano, si sono fermate spontaneamente a darci indicazioni! 5.45 PM. Caffè da Dunkin Donuts ad Harlem tra St. Nicolas Avenue e 145 Street. Quasi tutti neri, ovviamente, tranne noi. 7.00 PM (fino alle 9). Culto in una chiesa battista ad Harlem (che abbiamo scovato online): la Bethany ACE Zion Church. La siamo venuti a cercare fin qui, ad Harem, perché qui nella funzione del giovedì sera, per attrarre i giovani del quartiere, la musica della funzione non è gospel, ma hip-hop. Lo spettacolo è incredibile. Ma non so quanto l'obiettivo originario sia stato colto: niente giovani del quartiere, a parte quelli che celebrano, ma solo una decina di turisti con Lonely Planet alla mano. 10.45 PM. East Village. Cerchiamo il ristorante automatico in stile anni '50 Bamn, ma non lo troviamo. Scopriremo solo domani che ha chiuso. Finiamo per mangiare un sandwich in un piccolo deli, Paul's, sulla 2nd Avenue all'altezza di St. Mark's Street. La cameriera è pazzerella è litiga col gestore (ovviamente ispanico). A casa, il mio intestino è messo a dura prova.
Mattina, svegliati da Billy che fa la colazione. Lui e Lenore partono. Esploriamo la casa. Lavo la biancheria nel basement del palazzo, pieno di strumenti di tutti i coinquilini: è come un parco giochi per me. Problema con le pale. Marilù è intossicata. Saltiamo il pranzo e dormo fino alle 5 PM. Cuociamo il riso in una pentola a pressione automatica. Domino's pizza. Ore 8.30 PM. In metro per la messa gospel di fine anno alla Bethany Baptist Church di Harlem. Arriviamo alla fermata della metropolitana (linea D, 155th St.) alle 9.35 PM, con tutto che non sbagliamo cambio e che prendiamo un treno D espresso, che non fa tutte le fermate. Messa gospel per la Watch Night. Grandi abbracci e smartphone per cercare i passi delle letture. I turisti francesi sono in gruppo. Prima si siedono separati, nella balconata, poi in loro si vede stridente la differenza tra i due mondi, dei bianchi e dei neri che siamo venuti a osservare (si vede anche in noi?). Marilù è cotta già all'inzio della predica. Riesco a farla tirare fino a celebrare, tra grandi abbracci, la mezzanotte. Ore 12.00 (mezzanotte). Via dalla chiesa. Ore 12.25. Passa la metro che ci riporterà a casa. Ore 1.20. Il treno arriva alla nostra stazione. Ore 1.28. Siamo a casa.
Non usciamo di casa prima di mezzogiorno e mezza. Sole e tepore. 16 C° andando verso la metropolitana. 2.30 PM. Museo di storia naturale. L'entrata è con offerta libera. È valsa la pena di fare il City Pass? Alle 2.45 un dubbio ci assale: sono solo animali impagliati? 3.00. Planetarium. Gran dormita di Marilù. 4.00. In mezzo ai dinosauri. 4.30. In autobus verso sud. 5.00. Disney Store a Times Square. Gli impiegati hanno facce, voci e sorrisi in puro stile disneyano. Come alla Levi's ce n'è uno addetto solo a salutare (qui facendo ciao ciao con la manina) chi entra. Guardo fuori. Impossibile capire se la luce sulla strada è luce naturale o viene dei pannelli luminosi. Troppo alti i grattacieli per trovare velocemente un pezzo di cielo. È luce artificiale. Distrutti. Rockefeller. Starbucks. Cappello. Top of the Rock. Marie's Crisis.
Mattina tarda. Prima, Paolo e quaestiones per la scuola. 1.20 PM. Fuori di casa. La neve è quasi tutta sciolta persino dalle nostre parti. Strage di alberi di Natale. 1.50. Brunch da Superfine. Sono commosso. Sotto il ponte di Manhattan. Tavolo da biliardo. Musica lounge dal vivo con xilofono e bellissima cantante in vestito anni Trenta e guanti bianchi. Si chiamano Lounge Leader. 4.00. Aspettiamo una lenta metropolitana B che ci porti a Prospect Park (il parco dietro casa nostra) per pattinare. Finché non capiamo che di domenica la B non va e dobbiamo prendere la D e poi la Q. 5.00. Dunkin Donuts. Una ciambella che non sa di niente e un brownie che ha un brutto sapore. Anche qui stanno smantellando l'albero di Natale. 5.50. Appurato che la pista di pattinaggio per cui siamo tenuti fin qui non esiste più, siamo di nuovo in metro verso un negozio kitsch segnalato dall'insostituibile Lonely Planet. Dalle 4 alle 6 per una destinazione mancata. Questi sono i tempi di New York. Ma il bello qui, alla fine, è proprio questo vagare per i quartieri. 7.00. Rocky's shop. Crisi: dove andiamo? 8.00. Jeremy's Ale House. Sport bar. Un paio di giovani coppie con lei ubriaca. Frutti di mare fritti. Nauseabondamente fritti. Alle 8.45 anche Marilù i arrende alla nausea e lascia mezzo piatto di calamari fritti. 9.00. Molo 17. Vista sul ponte di Brooklyn. Tre anni fa ero qui da solo. 9.30. Ground Zero. Sono ancora al punto in cui erano tre anni fa. Ma ora tutto il cantiere è coperto alla vista da recinti che annunciano le commemorazioni del decennale.
12.00. Alla stazione della metro per andare al MoMA. Oggi fa di nuovo freddo. +2°C di massima e -2°C di minima. Da Palermo mi arrivano via email altre sollecitazioni dai vari fronti di lavoro aperti. 1.00. MoMA. 3.00. Ristorante sushi e tailandese. Io lavoro un po' al computer, approfittando del wireless. 4.30. Di nuovo al MoMA. 5.30. Fuori dal MoMA. Shopping sulla 5th Avenue. Gap, una catena di abbigliamento. L'architettura è simile a quella del MoMA. Vengo usato a mo' di appendiabiti per tre quarti d'ora. Impressionanti scene di maschi abbandonati in un angolo, di ogni nazione e gruppo etnico, tutti ugualmente spossati e rassegnati. Alcuni armeggiano con gli iPhone (io invece con il mio smartphone Nokia). 7.00. Fuori dal maledetto negozio. Passeggiata sulla 5th Avenue con un vento gelido in faccia e una temperatura che sarà sullo 0°C. 7.15. Nello Starbucks della Trump Tower. 8.00. Un Empire State Building incredibilmente senza code. Perché, come ci dice un inserviente, i bambini sono tornati a scuola. 10.00. Sbarro. Buffet a peso. Quello che gli americani pensano sia cucina italiana. Musica pseudo-italiana in sottofondo. Ma spunta anche Don Raffaè di De Andrè. 10.30. Lower East Side. Vivace, giovane. Ogni singolo quartiere di questa città ha una sua personalità e merita di essere visto. Anzi, vissuto. Avevamo visto l'Upper East Side e pensavamo che fosse abbastanza per tutto il lato est di Manhattan. No, bisognava vedere anche questo Lower Side. Arlene's Grocery. Karaoke rock live! Ma quando vedo che Marilù in un angolo si è messa a leggere il suo ebook, vera sua droga di questo viaggio, capisco che è ora di andare.
Altra mattina rilassata a casa. Del resto la sera torniamo stanchi assai. Usciamo alle 2 di pomeriggio alla volta del Metropolitan Museum. 2.30. Con un nuovo pass metro di 7 giorni in mano aspettiamo la metro nella nostra stazione. 3.15. Cambiamo idea durante il tragitto. Niente più Metropolitan per oggi. 3.30. Katz's Deli. Dove hanno girato la scena dell'orgasmo di Harry ti presento Sally. Cibo kosher. Segatura a terra in bagno. Hanno fatto della loro fama retro un brand: vendono le loro magliette. Avrà anche nome, origini e cibo ebraico, ma sono sempre messicani tutti quelli che preparano e servono cibo. I messicani nutrono gli americani. Bellissimo l'avviso in bagno sopra il lavandino: "Hot water". 4.30. Passeggiata nel Lower East Side. Per caso finiamo a Babeland. 5.00. Camminando camminando verso due sinagoghe della zona, ci ritroviamo di punto in bianco in Cina. Siamo finiti a Chinatown. Entrambie le sinagoghe sono chiuse. 5.30. Di nuovo in metro verso Central Park. Rispetto a Los Angeles qui le etnie sembrano più mescolate. Harlem e Chinatown a parte, in spazi comuni come la metro o semplicemente le strade in cui si va a piedi (spazi che mancano a Los Angeles) è difficile vedere persone solo di un'etnia, come nelle zone latine di Los Angeles o a Westwood, dove stavo io. È come se tutte queste etnie, essendo schiacciate insieme per via della compattezza del tessuto urbano, finissero, se non per miscelarsi, almeno per emulsionarsi. 6.00. Entriamo a Central Park dalla parte del Museo di Storia Naturale. 6.20. Al lago ghiacciato di Central Park, "The Lake". Gli Strawberry Fields. 7.00. Upper East Side. Park Avenue. Dove viveva il mio amico Arnold. E i Jefferson, dopo aver avuto finalmente, come canta la sigla, "a piece of the pie". Condominî lussuosi con portieri in livrea. Grandi magazzini Bloomindales. Con qualche pretesa in più di Macy's. Tutto è bianco e nero,fino ai lavandini dei bagni. Incredibile quante più ragazze carine ci siano nei quartieri ricchi e nei grandi magazzini di lusso rispetto alla nostra Brooklyn e alla metropolitana. 8.30. Starbucks di 116 East 57 Street. Caffè, poltrone comode e tecnologia. Wireless gratuito come sempre negli Starbucks. A New York lo spazio fisico e quello virtuale sono perfettamente fusi. Basta la connessione e Google Map per connettersi a una perfetta digitalizzazione dello spazio. Strade, indirizzi, negozi, locali, ristoranti, uffici, monumenti, trasporto pubblico. 9.30. Alla stazione metro di Astor Pl. veniamo risucchiati da un supermercato Kmart multipiano. Anche qui, come in quasi tutti i negozi che abbiamo visto, i commessi hanno gli headset. 9.45. Pyramid club. Serata Training Camp. Microfono aperto per esordienti. Tutti neri, solo hip hop. Uno si era prenotato per fare l'imitazione di Beyoncè con "Put a ring on it". Il presentatore fa del suo meglio per preparare la platea e farlo sentire a suo agio: "He has the heels... He does something different than we do". Un altro genere di musica. Un gelido "fag" si leva dall'angolo sinistro. Il presentatore, un duro: "Hey! There's no such thing as a fag". Ma non basta. Il tipo non si presenta. Mezzanotte. Pezzo di pizza in un deli del Lower East Side. Se uno non prende la pizza a New York, dove dovrebbe prenderla (Italia a parte)? Il condimento non è un granché, ma la pasta è meglio della media delle pizze al taglio in Italia. Nel complesso, passa la prova-Marialuisa. E per chiudere, naturalmente, dolce turco zeppo di miele nel deli turco all'angolo.
Mattina. Marilù si sveglia ancora un po' intossicata. Lavate in cantina. 2.15. Fuori di casa in un giorno di sole, il nostro ultimo nella nostra città. Ancora una volta l'intenzione era di andare al Metropolitan Museum. Ma il sole e lo struggimento per la fine di questi giorni ci dirottano verso qualcosa di più unico, di più esclusivamente newyorkese. Qualcosa all'aperto. Verso il Lincoln Center. Io il Metropolitan l'avevo visto nel 2004. 3.00. Siamo sulla linea A della metro, che viene dall'estremità est di Brooklyn e si fa tutta Manhattan fino ce Harlem. Viene fuori dal profondo di questa città. È piena di immigrati, neri, latini. Facce di gente che va a lavoro, o ne ritorna. 3.45. Lincoln Center. I mecenati del grande monumento sono le corporation, dai Rockefeller alla Standard Oil. 4.30. New York Public Library, sala di lettura. Bellissima e funzionalissima. Nonostante la puzza. Viene voglia di tirare fuori il laptop e mettersi a lavorare a qualunque cosa. Lo faccio preparando il layout per il sito che conterrà questo diario e mettendone online una prima versione. 5.30. Ancora alla New York Public Library. Ho appena messo online la prima versione di questo diario - fin qui. Poi ho preso un libro a caso. Un'antologia della satira. Ho letto un brano di Alice in Wonderland, in cui Alice si fa spiegare una poesia fatta di parole inventate. Personaggi bizzarri in biblioteca. Bisogna essere un po' bizzarri per dedicarsi agli studi in una nazione di mercanti. Anche qui ci sono limiti alla scansione dei libri: costano 25 centesimi a pagina contro i 15 delle fotocopie, se ne possono fare solo 15 e dev'essere un'impiegata della biblioteca a farle. Che sciocchezza. Ma il futuro del libro è digitale. Google Books li seppellirà. 6.00. Per strada sulla 42nd Avenue. Una signora, al bordo del marciapiede, nel gelo (ci sarà sì e no un grado), parla di Gesù con un microfono e una piccola cassa. 6.05. Marilù è risucchiata da un altro grande magazzino Gap, all'angolo di Times Square. 7.00. In metro, nei locali, ovunque i giovani tengono continuamente d'occhio il loro smartphone (quasi sempre un iPhone) con Facebook o qualche altra forma di messaggeria. 7.10. Apple Store tra la 9th Avenue e la 14th Street. Discussioni con gli ultradisponibili e carini connessi sulla filosofia open source e il mondo Apple. Il commesso mi conferma che sono l'uno l'opposto dell'altro. Prove gratuite e libere di iPhone e i Pad, incantevoli meraviglie. Non è cosa fanno, ma quanto bene lo fanno. Ad esempio: la differenza immensa tra un touchscreen che funziona (Apple) e uno che non funziona. Questo è l'ultimo Apple Store della città e il più grande. Un capolavoro di marketing e customer care. Una soluzione plausibile al grande problema ignorato dell'informatica contemporanea: il rapporto tra il computer e l'uomo. Programma One to one: assistenza (a pagamento) con un tutor personale per imparare come si usa una volta che l'hai comprato. Genius: assistenza se si rompe. Commessi sorridenti ovunque mentre, potenziale cliente, ti aggiri. Sono tanti, sono giovani, hanno una rassicurante maglietta blu. Arrivano spontaneamente, ti chiedono se hai domande o bisogno di consigli. Sono amichevoli, competenti e chiari. All'uscita, grandi discussioni con Marilù sul tema: l'iPad ha ragione di esistere? 8.00. In metro verso Harlem, dove la guida segnala un ristorante di cucina Soul, cioè della cultura nera del sud degli Stati Uniti. È stato durante la messa gospel che ho capito perché tanti aspetti della cultura afroamericana (musica, cucina) sono definiti "soul" (dell'anima). Sono contento di aver dato alla cultura dei neri tanto spazio in questo nostro viaggio. 8.20. Ristorante Amy Ruth's. Cucina soul. Marilù lo adora. Per me è un po' troppo ripulito. Ma la cucina è ottima. Squisito il corn bread offerto dalla casa. Lo lodiamo, e ce ne portano un'altra razione (meriteranno una mancia aumentata). Smothered chicken, patate dolci e cheesy grits per me, waffel with fried shrimps per Marilù. Tutto dolce-salato. Più dolce che salato. Di sicuro la guida aveva previsto bene che ci saremmo alzati con un gran bisogno di fare una passeggiata per digerire. 10.45. In metro, linea 3 verso sud. Una ragazza chiede l'elemosina a ritmo di rap accompagnandosi con un secchio e una bacchetta. Qualcuno dei passeggeri (ovviamente tutti neri, siamo ad Harlem) le fa il controcanto. Anche questo è un volto della miseria e non dovrei compiacermene, ma è irresistibile e le do tutte le monete che ho in tasca. Anche l'elemosina ha soul ad Harlem. Domani partiamo. Stasera casa, a Brooklyn, è la porta del ritorno, del volo che domani ci porterà via. Vorrei girare tutta la notte, e poi non partire mai. Suona retorico, ma è vero. È con le lacrime agli occhi che entrambi lasciamo questa città.
È il giorno della partenza. 8.00. In piedi. Ultime lavate e chiusura valigie. 11.30. Fuori casa, in perfetto orario sulla tabella di marcia. Ma che tristezza. 2.00. Check-in fatto, security passata (nessuna fila: si vede che qui lavorano tutti già dal 3 gennaio). Seduti in un ristorantino, o fast food (ma qual è la differenza, quando si parla di queste catene?) Buffalo Wild Wings. L'ultimo hamburger. Ma come fa l'America a comunicarti sempre, anche senza farlo appositamente, quest'idea del sogno americano? Credo di conoscerla ormai quel tanto che basta per non idealizzarla. Eppure, fatti tutti i conti, il bilancio è sempre, inspiegabilmente, quello di un sogno.
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.